domenica 27 dicembre 2015

anoressia e scelte alimentari

Gentilissimi,
Vi lascio alla lettura di un articolo interessante sulla anoressia. Si tratta di un articolo tratto, e lievemente modificato, dalla newsletter Le Scienze. Abbiamo già affrontato, in altri post, tale argomento. Ecco un nuovo approfondimento, seppur di 3 mesi or sono. Buona lettura. NR, nonna Rosa, oppure Nonna rosa

disturbi mentali alimentazione neuroscienze
Le scelte alimentari nell'anoressia nervosa
  


 © VOISIN/phanie/Phanie Sarl/Corbis

Anche quando sono in terapia e cercano di aumentare di peso, le persone che soffrono di anoressia nervosa scelgono, sistematicamente, i cibi meno grassi e meno calorici. Queste scelte sono correlate a un'intensa attività di una regione del cervello, lo striato, che presiede, in automatico, alle abitudini acquisite(red)
Nelle persone che soffrono di anoressia nervosa, la scelta degli alimenti è associata a un aumento di attività in una specifica regione del cervello, lo striato dorsale. Questa regione è nota perché è coinvolta nella gestione dei comportamenti abitudinari. A scoprirlo è stato un gruppo di ricercatori della New York University, che firmano un articolo, pubblicato su “Nature Neuroscience”. L'anoressia nervosa è una malattia dalle molte sfaccettature, ma in tutte le sue forme vi sono alcuni comportamenti altamente stereotipati, uno dei quali è la scelta di alimenti a basso contenuto calorico e basso contenuto di grassi. Clinicamente, questo modello di comportamento è stato spesso interpretato come la manifestazione di una notevole capacità di ignorare pulsioni primarie, come la fame, attraverso un rigido autocontrollo, in vista dello scopo prefisso: il dimagrimento. Tuttavia anche le persone che entrano in terapia e cercano di aumentare di peso (ossia, cambiano obiettivo), spesso sembrano incapaci di modificare il loro modello di scelta del cibo: continuano a scegliere cibi a basso contenuto di grassi e basso contenuto calorico. Karin Foerde, Joanna Steinglass e colleghi hanno studiato 21 pazienti, in terapia per l'anoressia nervosa, ma non ospedalizzati, e 21 soggetti sani di controllo. In una serie di test li hanno fatti scegliere fra svariati prodotti alimentari che differivano per salubrità e gusto. Per assicurarsi che le scelte fossero fatte a ragion veduta, qualche tempo prima del test erano stati fatti assaggiare piccoli campioni dei vari alimenti. Mentre i soggetti facevano le scelte, il loro cervello erano monitorato con risonanza magnetica funzionale. Gli autori hanno scoperto che i pazienti con anoressia nervosa scelgono sempre porzioni nettamente più piccole di alimenti ad alto contenuto di grassi e che, a questa scelta, corrisponde un aumento dell'attività dello striato dorsale. Inoltre, confrontando i dati di risonanza con quanto registrato, giorno per giorno, sul “diario alimentare” dei soggetti, i ricercatori hanno scoperto che i livelli di attività nello striato, rilevati in un certo giorno, permettevano di prevedere l'apporto calorico che i soggetti avrebbero avuto il giorno successivo.
(13 ottobre 2015)


mercoledì 16 dicembre 2015

termoregolazione in 20 passaggi

Gentilissimi,
Vi propongo una sintesi, miserrima, devo ammettere,sul tema "Cosa accade quando corro... se corro!".
Tale sequenza in 20 passaggi è sicuramente incompleta, non sempre precisissima, e poco approfondita.
Spero, tuttavia, possa servire a qualcuno. (Qui ci starebbe bene un emoticon, una "faccina" di quelle solitamente utilizzate dai nipoti).
Provo, comunque, a sintetizzare:
1) La termoregolazione è un meccanismo di controllo multiplo della temperatura del corpo. In tale meccanismo sono coinvolti più sistemi e apparati
2) Quando consumo energia, per esempio in una corsa, mi riscaldo. Infatti il calore è una forma di energia
3) Per evitare "danni" come strappi muscolari, appunto, prima della attività motoria è necessario un periodo detto di riscaldamento: si tratta di una serie di esercizi preparatori alla attività stessa
4) In un primissimo momento, l'organismo consuma l'ATP presente nelle cellule
5) Consumata l'ATP, l'organismo, al fine di evitare il surriscaldamento del corpo, stimola le ghiandole sudoripare a produrre sudore
6) Subito dopo, proseguendo nella corsa, l'organismo consuma lo zucchero di facile assimilazione presente nell'organismo
7) In questo momento si ha il massimo rendimento nella attività motoria, se si è allenati
8) Oltre ad un allenamento specifico e non improvvisato, e una adeguata visita medico-sportiva di controllo, è necessaria la capacità di sopportare la fatica ed il dolore. Quindi il cervello deve rimanere concentrato per proseguire nella corsa
9) Nel caso di corsa prolungata, con l'allenamento costante, l'organismo si abitua a sopportare fatica e dolore. Il momento in cui il cervello necessita di concentrazione è posticipato nel tempo
10) Esaurito il consumo di zucchero, l'organismo utilizza altre fonti energetiche. Il corpo si stanca e continua a produrre sudore sia per raffreddare il corpo mediante l'escrezione di acqua sia per mantenerlo comunque efficiente, eliminando le sostanze di rifiuto
11) Il sudore fuoriesce dai pori della pelle. Qui evapora, raffreddando l'organismo, oppure rimane aderente alla pelle per tensione superficiale
12) Contemporaneamente, sin da inizio corsa, aumenta la frequenza respiratoria ed il ritmo cardiaco
13) Per evitare di inspirare batteri e germi, sarebbe opportuno inspirare dalle narici ed espirare dalla bocca
14) Nelle cellule i mitocondri continuano a produrre, con la respirazione cellulare, ATP. Consumano ossigeno e zuccheri e producono anidride carbonica, energia e acqua
15) L'acqua è eliminata sia tramite sudore sia tramite la espirazione
16) Il meccanismo di sudorazione prosegue intensamente anche terminata l'attività motoria, per un certo periodo di tempo, dipendente dal tipo di attività effettuata, dall'allenamento e dalla biodiversità dei singoli individui
17) Terminata l'attività motoria, proprio per questo motivo, devo coprirmi ed evitare correnti di aria
18) Se non mi copro, i microorganismi presenti in ambiente aggrediscono l'organismo, stanco e affaticato, anche per il fatto che il sudore "attira", in qualche modo, i batteri
19) Quale azione preventiva, per tanto, oltre a coprirsi dopo l'attività motoria, è necessario ripristinare acqua e zuccheri nell'organismo, oltre ai sali minerali dispersi col sudore
20) Sempre per lo stesso motivo, appena sia possibile, è opportuno lavarsi bene, mediante doccia, per togliere il sudore, le sostanze di rifiuto presenti sulla pelle e gli eventuali batteri.

NR, nonna Riscaldata

domenica 13 dicembre 2015

Fauna di Chernobyl

Gentilissimi,
il Profeta Fiammeggiante, sperando sia clemente con una vecchia nonna, ha chiesto ulteriori informazioni su Chernobyl.
Vi lascio un recente articolo relativo al ritorno degli animali nella zona. Si tratta di un articolo tratto dalla newsletter Le scienze, solitamente lievemente modificato. Non fornisce indicazioni specifiche, tuttavia lascia presagire che, comunque, anche dopo un disastro di origine antropica, la natura possa riprendere ciò che le era stato tolto.
Sarebbe meglio che tali disastri si evitassero, comunque.
Buona lettura. NR, nonna Radioattiva? Speriamo di no!

Torna la fauna selvatica nell'area di Chernobyl
I censimenti condotti negli ultimi decenni, nella parte bielorussa della "zona di esclusione", intorno alla centrale, mostrano che il territorio è stato ricolonizzato da cervi, caprioli, cinghiali e lupi. Paradossalmente, la densità delle popolazioni di alcuni di questi animali è superiore a quella di altre regioni dell'ex Unione Sovietica e della stessa zona di Chernobyl prima della contaminazione radioattiva(red)
Da regione colpita da un disastro nucleare a riserva naturale per grandi mammiferi selvatici: sembra questo il destino paradossale dell'area di Chernobyl, secondo un nuovo studio, pubblicato, sulla rivista “Current Biology”, da Tatiana Deryabina, della Polessye Radioecological Reserve, a Choiniki, in Bielorussia, e colleghi di una collaborazione internazionale. Secondo i censimenti condotti negli ultimi decenni, infatti, il territorio intorno alla centrale è stato ricolonizzato da varie specie di cervi, caprioli, cinghiali e lupi. La centrale di Chernobyl, ora situata in territorio ucraino, a soli 16 chilometri dal confine con la Bielorussia, nel 1986 fu teatro del più grave incidente nucleare della storia: il materiale radioattivo fuoriuscito si diffuse nell'ambiente circostante, fino a raggiungere vaste regioni dell'Europa.

Un branco di cinghiali in un villaggio disabitato nell'area di Chernobyl (Cort. Valeriy Yurko)
Una delle misure di protezione, immediatamente dopo l'incidente, fu la creazione della cosiddetta zona di esclusione, con un raggio di 30 chilometri dall'impianto, che fu evacuata e messa sotto controllo militare. In seguito alla diffusione del materiale radioattivo, le dimensioni dell'area furono poi modificate, sulla base delle misurazioni del livello di cesio, fino a raggiungere un'estensione di 4200 chilometri quadrati, 2100 circa dei quali in territorio bielorusso, fanno ora parte della Riserva radioecologica di stato di Polessye. La riserva è un contesto ideale per studiare la capacità di recupero delle specie animali selvatiche dopo il depauperamento del 1986: i livelli di contaminazione radioattiva sono infatti molto simili a quelli della parte ucraina. Il nuovo studio, condotto analizzando i dati dei censimenti condotti negli ultimi decenni sorvolando la zona in elicottero, mostra che le popolazioni di mammiferi hanno recuperato, aumentando costantemente nei decenni. Secondo gli autori, le densità di popolazione di cervi, caprioli, cinghiali sono simili a quelle delle riserve naturali incontaminate della regione. Per quanto riguarda i lupi  che vivono all'interno della zona di Chernobyl, invece, il loro numero è addirittura sette volte maggiore di quelli registrati nelle stesse riserve. “Questo risultato dimostra, per la prima volta, che, indipendentemente, dalla potenziale esposizione alle radiazioni sui singoli animali, la zona proibita di Chernobyl ospita una numerosa comunità di mammiferi, dopo quasi tre decenni di esposizione cronica alla radiazione”, spiegano i ricercatori. L'incremento delle popolazioni di questi animali selvatici, paradossalmente, arriva in un momento in cui le stesse specie stanno diminuendo in diverse altre parti dell'ex Unione Sovietica. “È molto probabile che le popolazioni di animali selvatici siano più numerose ora di quanto non fossero prima dell'incidente”, ha concluso Jim Smith, ricercatore dell'Università di Portsmouth, nel Regno Unito, che ha partecipato allo studio. “Chiaramente, questo non significa che la contaminazione radioattiva sia una buona cosa per la vita selvatica, ma solo che gli insediamenti umani, la caccia e la deforestazione sono molto peggio.”.
(05 ottobre 2015)


venerdì 11 dicembre 2015

mutazioni nelle farfalle

Gentilissimi,
il ragazzo Anonimous ha chiesto immagini sulle farfalle di Chernobyl. Ho provato a rintracciare immagini appropriate ma, con mio rammarico, non ho trovato alcunché. Se qualche adepta delle nuove tecnologie potesse ovviare alla mia mancanza, ne sarei grata.
Ho trovato immagini simili alla richiesta, relative al disastro di Fukushima. Ve ne mostro alcune, facilmente reperibili in rete.

NR, nonna radioattiva!





mercoledì 9 dicembre 2015

mammiferi a Le bine


Gentilissimi,
il naturalista Francesco Cecere, apparso anche nell'ultimo numero de L'Espresso, ha pubblicato un video relativo ai mammiferi dell'Oasi-riserva Le bine. Veramente molto interessante e divertente! Vi lascio il link relativo:

mammiferi Le Bine

Una nonna riservista, NR!

giovedì 12 novembre 2015

effetto Einstein

Gentilissimi,
Canto di Natale ha chiesto immagini sull'effetto Einstein. Vi lascio al solito sito di Wikepedia, mediante link:

effetto Einstein

Ecco alcune immagini, in proposito.


La luce proveniente da un corpo posto "dietro" all'oggetto centrale, viene deviata dalla massa dell'oggetto al centro. Vediamo, così, quattro volte la stessa luce, proveniente, in apparenza, da quattro direzioni, o posizioni, differenti: in alto, a destra, a sinistra, in basso. Si tratta, in realtà, della stessa luce, proveniente dalla stessa sorgente luminosa. Le masse curvano lo spazio e deflettono la luce e i fotoni.
La spiegazione è un poco più complessa, ma spero che Vi accontentiate della spiegazione facilitata.
NR, nonna relativa

sabato 31 ottobre 2015

martedì 6 ottobre 2015

dislessia genetica

Gentilissimi,
con alunni e alunne di classe prima, abbiamo parlato, da vecchie nonne, di dislessia genetica. Forse è il caso di approfondire, mediante una semplice lettura, tale argomento. L'articolo che Vi propongo è tratto, e lievemente modificato, dalla newsletter Le Scienze. Buona lettura e buona riflessione. NR

genetica visione
CNR: Quando la dislessia è dovuta ai geni
Un marcatore genetico per aiutare la diagnosi precoce della dislessia.
Comunicato stampa - Chiarito il ruolo di un gene mutato che si associa a specifici deficit visivi. Lo studio, pubblicato su The Journal of Neuroscience, è stato condotto da ricercatori dell’Università di Pisa e del Cnr, in collaborazione con l’Università Vita-Salute San Raffele, di Milano
Roma, 28 maggio 2015 - Un recente studio, condotto da Guido Marco Cicchini dell’Istituto di neuroscienze, del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr) di Pisa, e Maria Concetta Morrone, dell’Università di Pisa, in collaborazione con Daniela Perani, dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, e Cecilia Marino e Sara Mascheretti, dell’Ircss Medea, ha rivelato un’associazione tra un particolare tipo di dislessia causata da un’alterazione di un gene, il DCDC2, e un disturbo specifico della visione. “Ad oggi la dislessia è diagnosticata solo quando si evidenzia un ritardo dell’apprendimento e vengono escluse altre cause”, commenta Cicchini. “Questo rallenta molto, talvolta anche di anni, ogni forma di intervento. Scoprire un marcatore genetico e fisiologico cambia radicalmente tale prospettiva: in futuro, la diagnosi di questo tipo di dislessia potrebbe essere più semplice e molto più precoce.”. Il DCDC2 fa parte di una ristretta famiglia di geni collegati alla dislessia. È già noto che il 20% dei dislessici ha un’alterazione in DCDC2, tuttavia il ruolo di questo gene, finora, era rimasto oscuro. Nella ricerca, apparsa in questi giorni su The Journal of Neuroscience, gli autori hanno preso in esame un gruppo di dislessici, portatori di un’alterazione di questo gene, dimostrando che sono ciechi al movimento di alcuni stimoli visivi, quelli che, di solito, sono i più visibili nei soggetti normali. “Questi soggetti dislessici riportano correttamente la forma o l’orientamento di un oggetto, ma, se forzati a indicare la direzione in cui si muovono alcuni stimoli, tirano a caso”, spiega Maria Concetta Morrone. “Per fortuna questo deficit è presente solo per alcuni tipi di stimoli e, quindi, l’impatto nella vita quotidiana può essere limitato, ma in alcuni casi potrebbe non essere così: per esempio la direzione di un pedone o di una bicicletta, visti da lontano, potrebbe non essere percepita. Siamo di fronte a un sottotipo particolare di dislessia che sarebbe auspicabile riconoscere e trattare in maniera specifica nei primi anni di vita e la genetica può aiutare a riconoscerlo in età molto giovane, quando le terapie riabilitative sono più efficaci.”. Nello studio venivano mostrate, a soggetti normali e dislessici con l’alterazione del DCDC2, mire visive, di varie grandezze e di differente contrasto, che si muovevano in direzioni diverse. Mentre i primi percepivano la direzione del movimento fino a contrasti molto bassi, i dislessici avevano forti difficoltà con gli stimoli minori di un grado di angolo visivo e non riuscivano a indicare correttamente la loro direzione di movimento, neanche al massimo contrasto (bianco su nero). La ricerca ha anche chiarito che un terzo gruppo sperimentale, composto da dislessici senza l’alterazione genetica del DCDC2, aveva un deficit di gravità molto inferiore e solo per stimoli molto piccoli, vicino ai limiti della visibilità. I ricercatori pisani e milanesi da oggi sono più vicini all'obiettivo di definire biomarker specifici e terapie più appropriate, soprattutto nella dislessia associata a mutazioni genetiche. Grazie al loro lavoro, possiamo comprendere che un approccio multidisciplinare integrato alla dislessia è necessario per avere diagnosi e terapie sempre più specifiche e risolutive.
(28 maggio 2015)


venerdì 25 settembre 2015

memoria proustiana

Gentilissimi,
come detto in un post precedente, tra i vari tipi di memoria possiamo annoverare la memoria autobiografica, o memoria episodica. Quando i ricordi episodici acquisiscono particolare nitidezza, coinvolgendo anche più sensi, si parla di memoria di Proust. Ecco, in proposito, un recente articolo in proposito. Come sempre l'articolo, tratto dalla newsletter Le Scienze, è stato lievemente modificato, al solo fine di renderlo maggiormente fruibile da alunni di scuola media.
Buona lettura!
P.S.: Bel ragazzo, Marcel, forse un poco timido! L'ho conosciuto personalmente e me ne ricordo come se fosse ieri. NR, nonna ricordante

neuroscienze memoria
Nel lobo temporale i segni del ricordo proustiano
I viaggi nel tempo mentali, in cui un ricordo si accompagna a molti particolari vividi, attivano la porzione posteriore di una regione cerebrale, chiamata lobo temporale mediale, mentre i ricordi isolati sono correlati all'attività della porzione anteriore. È quanto risulta da un modello dell'elaborazione cerebrale della memoria, testato su un gruppo di pazienti(red) 
In un celebre passaggio di Alla ricerca del tempo perduto, di Marcel Proust, il protagonista recupera alcuni vividi ricordi dell'infanzia, grazie al sapore di una madeleine intinta nel tè. L'esperienza narrata dal romanziere francese può essere considerata il prototipo di una sorta di “viaggio mentale nel tempo”, in cui la memoria di un evento è arricchita da una costellazione di dettagli. Un nuovo studio, apparso sulla rivista “Journal of Neuroscience”, e firmato da un gruppo di ricercatori della Vanderbilt University, chiarisce in che modo il cervello elabora i diversi tipi di ricordi, grazie all'analisi dell'attività cerebrale di volontari impegnati in un semplice test di memoria. “Capire quali siano le differenti regioni cerebrali coinvolte in questi viaggi nel tempo è molto importante”, ha spiegato Sean Polyn, che ha coordinato lo studio. “Malattie come l'Alzheimer e l'epilessia sono devastanti per la memoria, e questa informazione potrebbe consentire di preservare la memoria dei pazienti e di identificare gli effetti indesiderati dei nuovi farmaci psicotropi sulla memoria dei pazienti.”. Una regione temporale coinvolta nell'elaborazione dei ricordi è quella del lobo temporale mediale: danni a carico di questa regione determinano, infatti, amnesia e altri problemi correlati alla memoria. I ricordi, tuttavia, non sono tutti uguali: oltre ai viaggi nel tempo "proustiani", esistono anche ricordi ben definiti di una specifica situazione, ma non collegati ad altri ricordi di eventi molto vicini temporalmente a quella situazione. Polyn e colleghi hanno sviluppato un modello che rende conto di come le strutture del lobo temporale mediale supportano il recupero dei ricordi. Secondo questo modello, l'attivazione della porzione anteriore di questa regione segnala che un ricordo è stato recuperato, ma non indica quanto sia dettagliato; per contro, quando si attiva la porzione posteriore, significa che il soggetto sta sperimentando un “viaggio nel tempo”, con ricordi accompagnati da un numero notevole di dettagli. Per verificare come vengano elaborati dal cervello i due tipi opposti di ricordi, i ricercatori hanno effettuato scansioni di risonanza magnetica funzionale, per verificare l'attività delle diverse aree cerebrali, su 20 soggetti tra i 18 e i 35 anni, impegnati in test di memorizzazione di una lista di nomi. I dati hanno dimostrato che, quando un soggetto era sicuro di aver visto un certo nome, era più probabile che ricordasse anche il successivo nella lista. Questo dimostra che il cervello imprime i ricordi con un “codice temporale”, che collega suoni, profumi, emozioni e altre informazioni presenti al tempo di quell'esperienza. “I viaggi nel tempo permettono al cervello di recuperare il codice temporale, che rende accessibili i ricordi collegati”, ha concluso Polyn. In sostanza, il codice temporale è un po' come l'insieme dei metadati, come la data e l'ora, che, in un computer, sono associati a ciascun file, e che consentono di recuperare tutti i file salvati entro un certo intervallo di tempo. Secondo lo studio, il cervello può fare lo stesso, anche se in un modo più flessibile rispetto al computer.
(18 febbraio 2015)

giovedì 24 settembre 2015

altri appunti sulla memoria

Gentilissimi,
in altro post abbiamo analizzato i differenti tipi di memoria. 
Solitamente si è soliti suddividere e classificare la memoria in:
memoria a brevissimo termine, o memoria di sketchpad
memoria a breve termine (MBT)
memoria a lungo termine (MLT)
La MBT può essere sensoriale o verbale. In altre parole, possiamo ricordare esattamente quanto ci ha appena detto una nostra amica. Solo poco più tardi, se l’argomento era di nostro interesse, ricordiamo molto bene il senso complessivo della discussione. Non ricorderemo, salvo rare eccezioni, le esatte parole dette dalla nostra amica. Lo stesso avviene anche per le percezioni sensoriali. Solo poche persone, particolarmente allenate o predisposte, riescono a ricordare il profumo esatto del cibo mangiato a pranzo.
La MLT riguarda sia i ricordi autobiografici sia le conoscenze acquisite. Di essa fanno parte, quindi, la memoria episodica, anche nota come memoria autobiografica; la memoria culturale, detta pure memoria semantica, e la memoria procedurale, o memoria di lavoro. La memoria episodica è il ricordo di quanto successo in un determinato momento, a noi, nella nostra vita. Se tale memoria episodica è particolarmente vivida, precisa e dettagliata, a volte è detta “memoria proustiana”, facendo esplicito riferimento allo scrittore M. Proust. La memoria semantica è data da tutte le conoscenze culturali, linguistiche, nozionistiche, enciclopediche, o comunque relative a informazioni, per noi, di particolare interesse, o che, in qualche modo, hanno colpito la nostra curiosità. Essa si sviluppa, come ben sapete, particolarmente durante il periodo di vita scolastica, ma non solo. La memoria di lavoro, o procedurale, riguarda il “come si fa”. Essa si sviluppa sia con la motivazione all’apprendimento sia con la reiterazione della procedura da applicare. Motivazione e reiterazione sono particolarmente influenti durante qualsiasi apprendimento. All’inizio la procedura, non ancora acquisita, comporta una certa fatica, con consumo di energia in attenzione, concentrazione, sforzo impiegato. Una volta che la procedura è consolidata, il nostro cervello fa sempre meno fatica ad applicare tale procedura, impiegando proficuamente le proprie risorse per compiti più alti, nuovi, impegnativi. Uno tra gli studiosi italiani che ha meglio studiato la memoria episodica personale è Duccio Demetrio. Tra gli studiosi che meglio hanno studiato la memoria procedurale, in particolare le procedure motorie, ricordiamo Perciavalle. La classificazione MBT-MLT è stata proposta e sviluppata da diversi studiosi, tra cui Musen, Squire, Knowlton.
Se siete interessati all’argomento, Vi proporrò ulteriori articoli di approfondimento sul tema.
NR, Nonna Ricordante


socialità e gregge

Gentilissimi,
tra gli ambiti cosiddetti di controllo cerebrale, facilmente riconoscibile, è l'ambito sociale.
Si tratta di tutte le relazioni tra persone, e non tra una persona e uno strumento tecnologico.
Tra le differenti capacità del nostro cervello, vi è quella della relazione, o della socialità. Si parla di socialità, semplificando molto il concetto, quando la relazione è, appunto, "di controllo". Negli altri casi sarebbe meglio parlare di socializzazione. Accade, tuttavia, che, in alcuni casi, la distinzione tra socialità e socializzazione sia alquanto labile. E' questo, ad esempio, il caso di una evacuazione, oppure dei cori da stadio, in cui un leader, o presunto tale, agisce e le altre persone agiscono seguendo il leader e non in autonomia. Si parla di "effetto gregge". Siamo in un ambito di controllo, oppure no?
Per cercare di dare una risposta, Vi lascio alla lettura di una comunicazione abbastanza recente al riguardo. Buona lettura!
NR, Nonna rigorosa


comportamento società matematica
CNR: L'effetto gregge esiste
Comunicato stampa - I pedoni in gruppo e le folle si comportano come pecore, quando non sanno dove andare, e si possono controllare: una scoperta, a cui ha contribuito l'Iac-Cnr, che, con un'opportuna guida 'nascosta’, potrebbe consentire di gestire, in modo ottimale, situazioni quali i flussi dei pellegrini al prossimo Giubileo. L'esperimento è apparso su arXiv
Roma, 11 maggio 2015 - In situazioni di confusione, i gruppi umani si comportano esattamente come le greggi: tendono a seguire le persone davanti a loro, in particolare se sembrano sapere dove andare. Un comportamento che, secondo un nuovo studio italo-tedesco, cui ha partecipato l'Istituto per le applicazioni del calcolo, del Consiglio nazionale delle ricerche (Iac-Cnr) di Roma, può essere sfruttato per 'orientare' i movimenti di una folla in situazioni di emergenza, magari mescolando ad essa soggetti che sappiano precisamente come comportarsi. Una ricerca che potrebbe tornare utile, per esempio, per gestire al meglio i flussi di pellegrini del prossimo Giubileo straordinario annunciato da Papa Francesco. "Abbiamo voluto testare, sul campo, la correttezza delle previsioni dei modelli matematici per il controllo delle folle che sfruttano il cosiddetto 'effetto gregge'”, spiega Emiliano Cristiani, dell'Iac-Cnr. "Si tratta di un comportamento che si manifesta in animali sociali, come oche, scarafaggi e, naturalmente, pecore, che porta a muoversi seguendo i compagni vicini, indipendentemente dalla loro destinazione. In matematica, un gregge è un esempio di sistema auto-organizzante, un gruppo composto da un numero elevato di 'agentì’ che seguono regole semplici e in cui le dinamiche individuali sono influenzate da quelle degli agenti più prossimi. Nonostante si tratti di atteggiamenti solitamente associati ad animali, studi del genere sono utili per indirizzare al meglio anche grandi folle di esseri umani, in situazioni delicate, come nei piani strategici di evacuazione.". L'esperimento, apparso su arXiv, si è svolto di recente nel Dipartimento di matematica della Sapienza Università di Roma. A due gruppi, di circa 40 persone ognuno, è stato chiesto di raggiungere, a partire da un'aula, un determinato luogo, sconosciuto a tutti tranne che a una persona nel primo gruppo e a cinque nel secondo (che non si sono svelate fino alla fine dell'esperimento). "Uscendo dalla classe", prosegue il ricercatore Iac-Cnr, "i soggetti hanno mostrato una lieve tendenza ad andare a destra, verso la parte del Dipartimento a loro più familiare, presto superata dal desiderio di raggiungere e seguire i compagni che si trovavano di fronte a loro. Questo comportamento ha permesso alle persone informate di 'trascinare' gli altri, portandoli a destinazione lungo il percorso più veloce.". Si tratta del primo esperimento di questo genere effettuato con pedoni in un ambito di ricerca. Gli studiosi hanno verificato che le persone non sembrano a loro agio con istruzioni calate 'dall'alto', ma diventano docili quando viene fatto loro credere di scegliere autonomamente. "Nuovi modelli matematici e metodi di ottimizzazione sono stati usati, in combinazione, per trovare la strategia dei 'leader nascosti’, e portare tutti a destinazione, evitando attese e congestioni. La strategia migliore consiste nello spezzare la folla per indirizzarla verso tutte le uscite disponibili, anche le più lontane e meno conosciute. Nel caso di una sola uscita, invece, per garantire un deflusso ottimale, è paradossalmente preferibile ingannare alcune persone, conducendole lontano da essa, per poi riportarle successivamente nella giusta direzione.". Le tecniche di controllo di grandi folle studiate in questa ricerca trovano una naturale applicazione nei casi in cui la situazione di pericolo è prevedibile, ma la comunicazione tra autorità e folla è difficoltosa, come, per esempio, durante una manifestazione violenta. In questi casi, agenti in borghese nascosti nella folla potrebbero correre in direzioni concordate, per attivare l'effetto gregge. Allo studio hanno collaborato scienziati della Technische Universität, di Monaco di Baviera.

(11 maggio 2015)

martedì 22 settembre 2015

osservazione

Gentilissimi,
per partire bene con il nuovo anno scolastico, sembra opportuno riproporre le basi della scienza. Sappiamo, da oramai molto tempo, che, se possibile, la scienza parte dalla osservazione di corpi, fatti e/o fenomeni. Alla osservazione, effettuata con tutti i sensi, di solito segue una descrizione di quanto osservato.
Vi propongo un semplice esercizio di osservazione. Osservate e descrivete l'immagine sottostante.
Dovrete, tuttavia, non indicare di quale animale si tratti, e neppure di quale fiore si tratti.
Come ben sapete la classificazione, sebbene sarebbe meglio, nel presente caso, definirla determinazione, è successiva ad una corretta descrizione. Non potrete utilizzare, per esempio, "farfalla".
Ovviamente non avete a disposizione che il solo senso della vista. Non potrete neppure utilizzare unità di misura, in quanto non Vi propongo alcuna scala di riduzione.
Per quanto riguarda  i colori, suggerisco di fare riferimento alla Carta di Munsell, sempre reperibile sul web. Utilizzate, mi raccomando, i termini in italiano, oltre alle sigle corrispondenti. Paragonate il colore che vedete alla scala di Munsell. Indicate, quale colore, quello che più si avvicina alla Vostra osservazione.
Se pensate che la Vostra descrizione sia particolarmente interessante, potete inviare la stessa, tramite commento, oppure in altro modo, al Vostro blog, ai fini di una eventuale pubblicazione, in un post futuro. Fate da soli e NON fateVi aiutare da adulti (nonne comprese!).
NR, una nonna recidiva e poco diva!


Buon lavoro! NR

mercoledì 2 settembre 2015

una risposta a Chiara

Gentilissimi,
una nostra lettrice, Chiara, ha inserito un commento relativo al post sugli universi paralleli.
Reputo utile fornire ulteriori spiegazioni in proposito.
Chiedo scusa, già da subito, se la spiegazione sarà "semplificata".

a) Secondo la meccanica quantistica non possiamo sapere, con precisione, velocità e posizione di una particella contemporaneamente. Si tratta del principio di indeterminazione.
b) Una particella, come il fotone, per esempio, può essere considerata come un'onda oppure come un "corpuscolo". Se consideriamo il fotone un'onda, esistono modelli matematici, posti in forma di equazioni, che cercano di spiegare tale onda. Le equazioni d'onda non sono di primo grado, ossia hanno più di una soluzione.
c) La particella, o l'onda, se preferite, può trovarsi, dal punto di vista delle probabilità, in uno stato A oppure in un altro stato B.
d) Al momento della osservazione, lo sperimentatore osserva uno dei due stati. In altre parole o osserva la particella nello stato A  OPPURE osserva la particella nello stato B.
e) Poiché ENTRAMBE le soluzioni sono possibili, dal punto di vista matematico, anche l'altra soluzione DEVE esistere.
f) Questo comporta che, dal punto di vista fisico, si può ipotizzare che, in maniera controintuitiva, esista pure l'altro stato. Ipoteticamente E' COME SE ci fossero due particelle: una nello stato A; l'altra nello stato B.
g) Al momento della osservazione, poiché l'osservatore vede solo uno dei due stati, cosa accade all'altro stato?
h) Per rispondere a questa domanda è stato proposto che, all'osservazione, accada che, matematicamente, e fisicamente, l'universo, in qualche modo, si sdoppi. In un universo vedremo lo stato A, nell'altro lo stato B.
i) Questi universi ipotetici NON sono in comunicazione tra loro. Sono universi paralleli non comunicanti.
l) Se esistessero tali universi, non potremmo osservarlo e conoscerli, in quanto l'informazione contenuta in uno di essi non sarebbe a disposizione degli altri universi.
m) Esistono, tuttavia, ipotesi alternative, che propongono la possibilità, probabilistica, che vi siano alcune condizioni in cui tali universi possano comunicare. L'articolo proposto nel precedente post cerca di spiegare tale possibilità.

Ringrazio Chiara per la puntuale precisazione. Spero solamente di non aver "ben confuso" il tutto.
Una nonna parallela! NR

lunedì 10 agosto 2015

ancora sull'origine della vita

Gentilissimi,
eccoVi un ulteriore articolo che avvalora la cosiddetta "congettura di Hoyle", o panspermia.
Si tratta di una ipotesi sull'origine della vita che, negli anni '70-'80, ha avuto, almeno dal punto di vista mediatico, un notevole riscontro. Si vedano, come esempio, nella musica le canzoni di David Bowie, o, in Italia, Alan Sorrenti e i suoi Figli delle stelle.
Era detta "congettura" in quanto non avvalorata da esperimenti e, per tanto, non accettata dalla maggior parte degli scienziati. Dalle ultime scoperte di Rosetta è possibile predire che tale congettura ritorni ad essere una "ipotesi". Nell'articolo che Vi propongo, lievemente modificato dalla newsletter Le Scienze, si parla delle molecole prebiotiche e di un "residuo organico", messo in grassetto dalla Vostra nonna, che ricorda, per molti aspetti, la torbidità ottenuta da Miller e Oparin nel famoso esperimento.
Prima di lasciarVi alla lettura di questo interessante articolo, una considerazione:
se l'ipotesi inorganica ha ampliato la possibilità numerica di ottenere molecole organiche autoreplicantesi, forse, spostando tale ipotesi dalla Terra a tutti i pianeti con caratteristiche simili alla Terra presenti nell'universo, tale probabilità aumenterebbe,  e di molto.

biologia spazio astronomia
I mattoni della vita nei ghiacci interstellari
La formazione di aldeidi, composti chimici cruciali per la chimica di base della vita, è stata osservata in laboratorio, riproducendo processi fisici che avvengono nei ghiacci che si trovano nelle nubi molecolari protostellari, da cui hanno origine i pianeti e altri oggetti celesti come comete e asteroidi(red)
I ghiacci interstellari, che si trovano in abbondanza nelle dense nubi molecolari da cui si sono formate le stelle e i sistemi planetari, possono evolvere in composti chimici intermedi, che costituiscono i mattoni elementari della vita. È quanto si legge nelle conclusioni di un nuovo articolo, apparso sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”, a firma di Pierre de Marcellus, dell'Università Paris-Sud, a Orsay, in Francia, e colleghi di una collaborazione internazionale, che, in una serie di esperimenti di laboratorio, hanno riprodotto i processi grazie ai quali questi ghiacci evolvono nello spazio interstellare. Secondo lo studio, il materiale, incorporato nei planetesimi, gli oggetti primordiali da cui si sono formati i pianeti, sarebbe una potenziale fonte di chimica prebiotica sui pianeti di tipo terrestre.

Rappresentazione artistica di planetesimi, i nuclei da cui si sviluppano i pianeti, che possono incorporare i mattoni elementari dei composti organici (Cortesia NASA/JPL-Caltech/T. Pyle (SSC))

Le osservazioni astronomiche nel medio infrarosso hanno identificato i ghiacci interstellari come la frazione più abbondante delle dense nubi molecolari che si trovano intorno alle protostelle. La loro composizione è dominata dall'acqua, seguita dal monossido di carbonio, dall'anidride carbonica, dal metanolo, dall'ammoniaca e dal metano.  Tutti questi composti chimici, esposti all'azione di vari processi energetici, come i raggi cosmici (la pioggia di particelle cariche provenienti dallo spazio esterno, per lo più da protoni e nuclei di elio), i raggi ultravioletti e i processi termici, possono dare luogo a specie altamente reattive, quali ioni e radicali, che, a loro volta, in seguito, si possono ricombinare in molecole più complesse. Questa complessità molecolare è difficile da osservare con gli strumenti astrofisici e, in particolare, con la spettroscopia infrarossa. E' per questo che molti laboratori hanno simulato l'evoluzione fotochimica di semplici ghiacci interstellari, che coinvolgono elementi quali carbonio, idrogeno ossigeno e azoto: in seguito al riscaldamento a temperatura ambiente è possibile ottenere la formazione di un residuo organico considerato un analogo della materia protocometaria. Questo tipo di residui mostra una struttura macromolecolare in cui compaiono diversi tipi di composti, come alcoli, amine, amidi, esteri e acidi carbossilici. In particolare, quando gli idrocarburi policicli aromatici presenti nei ghiacci sono irradiati si formano diverse molecole prebiotiche, che costituiscono, cioè, le unità di base dei composti organici, e, quindi, della vita, come gli amminoacidi e i diamminoacidi, l'urea, la glicourea, i precursori dei lipidi e i chinoni. All'appello mancavano però gli aldeidi, scoperti ora da de Marcellus e colleghi in 10 forme diverse, utilizzando sofisticate tecniche di cromatografia e spettrometria. Gli autori hanno sintetizzato in particolare la glicoaldeide e la gliceraldeide, due composti chimici considerati come intermedi prebiotici cruciali nelle prime fasi della sintesi di ribonucleotidi, cioè dei mattoni elementari che costituiscono l'RNA, nell'ambiente protoplanetario. Stando al risultato dell'esperimento, è plausibile ipotizzare che questi composti chimici, presenti all'origine del sistema solare, siano stati successivamente incorporati nei materiali che hanno formato i planetesimi e, da qui, abbiamo potuto dare il via alla chimica prebiotica.
(13 gennaio 2015)


giovedì 30 luglio 2015

profumo di cometa

Gentilissimi,
ho trovato, sulla newsletter Scienzainrete, un interessante articolo sull'esperimento Rosina. L'articolo, di C. Elidoro, è stato lievemente modificato. Del resto si parla di Rosetta e Rosina! Volete che nona Rosa non ve lo proponga? Se la risposta fosse "sì", avete sbagliato blog. Se, al contrario, Vi interessano tali argomenti, allora buona lettura! NR

ARTICOLO SCIENZAINRETE:
Il profumo della cometa di Claudio Elidoro Scienze dello spazio
E' dall'inizio di agosto che gli strumenti dell'esperimento ROSINA (Rosetta Orbiter Sensor for Ion and Neutral Analysis), a bordo della sonda Rosetta, stanno esaminando i vapori prodotti dalla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko nel suo graduale avvicinamento al perielio (il giro di boa attorno al Sole avverrà il prossimo 13 agosto).  I primi dati raccolti dagli strumenti sono già stati diffusi, a settembre, nel corso dell'EPSC 2014 (European Planetary Science Congress 2014), tenutosi a Cascais, in Portogallo. ROSINA è un esperimento complesso, composto da tre distinti strumenti: due spettrometri di massa (DFMS e RTOF), le cui capacità si integrano a vicenda, e un sensibile rilevatore di pressione (COPS). Progettati e realizzati da una decina di Istituti di ricerca, gli strumenti di ROSINA hanno, come obiettivo, la determinazione della composizione della chioma della cometa, la misurazione delle temperature e delle velocità dei gas e degli ioni che la compongono e l'individuazione delle reazioni chimiche che vi si svolgono. Un obiettivo ambizioso, ma alla portata dei delicati strumenti dell'esperimento. Basti dire che i due spettrometri sono in grado di individuare gli elementi chimici entro un intervallo di massa estremamente ampio che va da 1 a 300 uma (unità di massa atomica). Il che significa che riescono a rilevare sia un singolo atomo di idrogeno sia complesse strutture quali le molecole organiche.  L'elevata risoluzione delle misurazioni, inoltre, permette di distinguere tra loro composti con massa davvero molto simile, per esempio CO da N2 oppure 13C da 12CH, consentendo di costruire una mappatura davvero accurata e attendibile degli elementi e dei composti chimici presenti nella chioma della cometa. Per di più una mappatura realizzata in loco, come non accadeva dai tempi della sonda Giotto allorché, era il 13 marzo 1986, quella storica sonda transitò a poco meno di 600 chilometri dal nucleo della cometa di Halley. Ora abbiamo la possibilità di analizzare la chioma di una cometa da una distanza di pochi chilometri. I dati finora raccolti hanno permesso, anzitutto, di scoprire come la chioma della cometa, benché si trovi a più di 400 milioni di chilometri dal Sole, sia sorprendentemente ricca di composti chimici. Il rapporto tra questi composti all'interno della chioma non è costante, ma varia in modo piuttosto significativo: considerando, per esempio, il monossido di carbonio, si passa da regioni in cui è abbondante quanto l'acqua ad altre in cui il suo rapporto si riduce a solo un decimo. Le quantità rilevate sono ancora esigue: la produzione di materiale volatile andrà aumentando sempre, più man mano la cometa si avvicinerà al perielio. Tali rilievi hanno comunque permesso ai ricercatori di farsi un'idea di quale potrebbe essere l'aroma della chioma cometaria. Kathrin Altwegg (Università di Berna), Principal Investigator dell'esperimento ROSINA, descrive così, in una nota stampa diffusa qualche giorno fa, il possibile effluvio emanato dalla cometa: “Si tratta di un profumo piuttosto forte, un misto tra l'odore sgradevole di uova marce (acido solfidrico), quello pungente dello stallatico (ammoniaca) e quello soffocante della formaldeide, il tutto miscelato con il tocco amarognolo al sapore di mandorla dell'acido cianidrico. Ora aggiungiamo, in parti uguali, una punta alcolica (metanolo) e un tocco d'aceto (anidride solforosa) e, per finire, un pizzico di aroma dolciastro (solfuro di carbonio). Ed ecco realizzato il profumo della nostra cometa.”. Decisamente poco poetico, insomma, l'olezzo che lascia dietro di sé la cometa 67P/C-G. Anche se, con le quantità in gioco, per riuscire a percepirlo bisognerebbe essere dotati di un fiuto da cane da tartufi. Fortunatamente, poi, tutti quei composti maleodoranti sono abbondantemente diluiti in quelle che sono le componenti principali della chioma cometaria: acqua e anidride carbonica (praticamente acqua gassata), integrate da monossido di carbonio. Al di là del gioco del profumo, la determinazione accurata della composizione della chioma cometaria potrà permettere di giungere a stabilire la composizione della cometa stessa.  I ricercatori potranno così indagare sulle differenze tra le comete che, come la 67P/C-G, provengono dalla Fascia di Kuiper e quelle che, come la Siding Spring, passata di recente nei pressi di Marte, provengono invece dalla più distante Nube di Oort. Racchiuse in quelle composizioni ci potrebbero essere le risposte a molti dubbi riguardanti la primissima infanzia del nostro Sistema planetario.
Per approfondire:
ROSINA Homepage - Università di Berna

(6 novembre 2014)

lunedì 27 luglio 2015

universi paralleli

Gentilissimi,
con un ricordo particolare per Miss Prosciutto di Cavallo, Vi lascio ad un approfondimento, tratto e modificato dalla newsletter Scienzainrete, Si parla di universi paralleli. Nell'articolo originale vi sono numerosi rimandi, non in Bibliografia, ad altri articoli. Se pensate Vi sia utile, cercate l'articolo originale nella news citata. L'articolo è interessante in quanto propone, o ripropone con modifiche, una ipotesi affascinante. Buona lettura! NR

ARTICOLO SCIENZAINRETE:
Se gli universi “paralleli” non sono paralleli Filippo Bonaventura  Fisica ed. sc., div. scientifica
Esistono universi paralleli? La domanda è tra le più “grandi” che siano emerse dalla fisica del XX secolo, e il dibattito è ancora aperto. Il contributo più recente viene da due fisici australiani, Howard Wiseman Michael Hall, e uno statunitense, Dirk-André Deckert, con un articolo pubblicato, qualche giorno fa, su Physical Review X. I tre autori sostengono che sembrerebbe non esserci nulla di sbagliato a immaginare che il nostro universo sia solo uno dei tanti: anzi, in questo modo si potrebbero spiegare alcune caratteristiche particolarmente “spinose” della fisica dei quanti. La meccanica quantistica non è solo necessaria per spiegare il comportamento della natura a livello fondamentale: nella sua versione relativistica è anche la teoria più comprovata e “di successo” di tutta la fisica. Le equazioni, insomma, funzionano bene; ma non c’è ancora consenso su come vadano interpretate. «Dio non gioca a dadi», commentava, per esempio, Albert Einstein, particolarmente scettico sul ruolo apparentemente fondamentale della probabilità in meccanica quantistica.  Fu proprio nel dare un’interpretazione alla meccanica quantistica che allontanasse il “fantasma” delle probabilità che affiorò, per la prima volta nella scienza moderna, l’idea degli universi paralleli.  Nel 1957, infatti, il fisico americano Hugh Everett III formulò la cosiddetta “interpretazione a molti mondi” della meccanica quantistica. «La stranezza dell’interpretazione a molti mondi», spiega Wiseman, direttore del Centre for Quantum Dynamics, alla Griffith University, «sta nel postulare che, ogni volta che si compie un’osservazione su un sistema quantistico in un universo, quell’universo si “dirama” in un certo numero di altri universi, uno per ogni possibile esito dell’osservazione.». Oggi l’interpretazione a molti mondi non gode di ampio successo, soprattutto per via del suo carattere fin troppo “bizzarro”: com’è possibile che un universo si dirami in più universi? In che modo avverrebbe un fenomeno del genere? Che cosa si intende esattamente per “osservazione” di un sistema quantistico? Se non osservassimo sistemi quantistici, l’universo non si diramerebbe? La coscienza umana ha un ruolo nel moltiplicarsi degli universi? Wiseman, Hall e Deckert hanno sostanzialmente ideato un approccio alla meccanica quantistica simile a quello a molti mondi, ma privo di questi scomodi inconvenienti: hanno chiamato questo approccio “a molti mondi interagenti” (many interacting worlds, o MIV). Secondo questa visione, ci sarebbero altri universi in numero sterminato, ma non infinito e soprattutto costante: in questo modo si elimina il problema della “diramazione”. Ognuno di questi universi è caratterizzato da una fisica squisitamente classica: non c’è distinzione tra il comportamento della materia a livello macroscopico e a livello microscopico; in particolare, non esiste qualcosa come le funzioni d’onda o il principio di indeterminazione, e le probabilità non sono grandezze fisiche fondamentali: conoscendo posizione e velocità di ogni particella, si può stabilire, in linea di principio, l’evoluzione fisica dell’universo in maniera deterministica, come nella meccanica newtoniana. Secondo il modello di Wiseman e colleghi, la presenza dei bizzarri fenomeni “quantistici” è dovuta al fatto che i vari universi non sono perfettamente “paralleli”. Questi infatti interagiscono tra loro: nello specifico, esiste una sorta di “repulsione” che impedisce loro di avere la stessa configurazione (ovvero, la stessa posizione e velocità di ogni particella). L’evoluzione di un sistema quantistico in un universo appare di natura probabilistica per via della nostra ignoranza su quale sia il particolare universo in cui il sistema quantistico evolve. I tre scienziati hanno condotto simulazioni al computer di sistemi quantistici, facendo uso del loro approccio, scoprendo che, in questo modo, si riesce a riprodurre alcuni fenomeni eminentemente quantistici come l’effetto tunnel, l’energia del vuoto e l’interferenza da doppia fenditura. In altre parole, questi eventi potrebbero avvenire in universi completamente “classici”, nell’ipotesi che questi interagiscano con altri universi simili secondo l’approccio MIV. «La bellezza del nostro approccio», dichiara Wiseman, «è che se c’è un solo universo la nostra teoria si riduce alla meccanica newtoniana, mentre se c’è un numero enorme di universi essa riproduce la meccanica quantistica.». L’approccio MIV non è destinato a rimanere soltanto una questione accademica. Come annuncia lo stesso Wiseman, attraverso le sue applicazioni simulative può rivelarsi utile per «modellizzare la dinamica delle molecole, che è importante per comprendere le reazioni chimiche e l’azione dei farmaci.». Bill Poirier, professore di chimica alla Texas Tech University, commenta: «Queste sono grandi idee, non solo a livello concettuale, ma anche per le scoperte a cui quasi certamente daranno origine tramite le simulazioni.». Richard Feynman, uno dei più grandi fisici teorici del Novecento, ebbe a dire: «Nessuno capisce la meccanica quantistica.». Questo perché nessuno riesce davvero a far propri i concetti più anti-intuitivi di questa teoria: si possono usare per fare predizioni matematiche, ma capirli davvero è un altro paio di maniche. Con l’approccio MIV non si è più costretti a capire la meccanica quantistica, perché essa si ridurrebbe a “semplici” proprietà emergenti dall’interazione tra i vari universi. Il prezzo da pagare, naturalmente, è presupporre l’esistenza di un gigantesco numero di universi oltre al nostro.

(7 novembre 2014)

mercoledì 15 luglio 2015

IL K2 E' PIU' BASSO

Gentilissimi,
ecco una notizia interessante. Riguarda la seconda montagna più alta del globo: il mitico K2.
L'articolo, forse non più recentissimo, ma comunque confortante, per lo meno per noi piccolette, è tratto dalla newsletter Le Scienze, solo lievemente modificato, ai fini di una migliore lettura.
Una nonna piccoletta!

scienze della terra
EvK2CNR: Il K2 è alto due metri in meno
Comunicato stampa - I dati della misurazione più precisa mai effettuata
Bergamo, 16 ottobre 2014 - 8609,022 metri: è questa l’altezza del K2. Due metri in meno della quota ufficiale, 8611 metri, riportata sulle carte, su web e nei libri, ed effettuata, nel 1859, dal colonnello Montgomerie, del Survey of India. La nuova misurazione, effettuata nell’ambito della spedizione “K2 60 years later”, supportata da EvK2CNR, coinvolgendo ricercatori e alpinisti pakistani e italiani, è la più precisa mai effettuata. La misurazioni sono state effettuate anche ai campi della via, lungo lo Sperone Abruzzi, dal campo base a campo 4, l’ultimo, situato sulla spalla della montagna. Per rilevare i dati sono stati utilizzati GPS (Global Positioning System) di altissima precisione. Il Gps LEICA Viva GS14, portato lungo la salita fino alla vetta dall’alpinista pakistano Rehmat Ullah Baig, ha registrato dati dalla cima del K2 per più di venti minuti. Il ricevitore ha seguito i satelliti disponibili di GPS e GLONASS e utilizzato i loro segnali per l’ottenimento dell’esatta latitudine, longitudine e altitudine di ogni singolo punto, con 1 Hz di frequenza di campionamento. Altri due GPS, situati a Skardu e al Gilkey Memorial a quote e coordinate geodetiche note, hanno fatto da stazioni di riferimento, permettendo di elaborare i dati del GPS di vetta con precisione al decimetro, ed eliminando eventuali imprecisioni legate a fenomeni atmosferici e ionosferici.  Il progetto di ricerca è stato realizzato da EvK2CNR, sotto la direzione del Professor Giorgio Poretti, in collaborazione con l’Università di Trieste e dei ricercatori della Karakorum International University, della Azad Jammu and Kashmir University e della Poonch University. Di grande interesse anche i dati delle quote dei campi lungo la via dello Sperone Abruzzi, allestiti nelle medesime posizioni, sostanzialmente obbligate, da molti anni. Il campo base avanzato, dove inizia lo Sperone Abruzzi, si trova a 5273 m. 7747 m è la quota di campo 4, l’ultimo, da dove gli alpinisti partono per il tentativo di vetta. Queste le quote dei restanti campi: Campo I  6060 m;  Campo II 6654 m; Campo III 7330 m. Il Campo base è a 4963 m, alla vetta ne mancano 3646. “Già nel 1996, EvK2CNR, in collaborazione con il Survey of Pakistan”, dichiara il professor Poretti, “ha calcolato la quota della montagna, rilevando un’altezza, aggiornata alla quota geoide utilizzata nel 2014, di 8610,34 metri. Oggi però possiamo affermare, con ragionevole certezza, che la misura esatta della montagna degli italiani è 8609,022 metri.”. 
(16 ottobre 2014)


martedì 7 luglio 2015

esperimento di Miller al computer

Gentilissimi,
già in altre occasioni abbiamo parlato delle varie ipotesi sulla origine della vita. Ecco un ulteriore approfondimento sul celeberrimo esperimento di Miller-Oparin.
Grazie all'elaborazione al computer è stato possibile confermare le conclusioni dell'esperimento. L'articolo è stato tratto dalla newsletter Scienzainrete, lievemente modificato per una migliore lettura.

Riprodotti al computer i ‘mattoni della vita’
Come è avvenuto il passaggio dall’inorganico all’organico? Come, in sostanza, ha avuto origine la vita? Un importante passo in avanti, nelle nostre conoscenze, è stato compiuto grazie a due fisici di Messina, Franz Saija, ricercatore dell’Istituto per i processi chimico-fisici, del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina (Ipcf-Cnr), e Antonino Marco Saitta, professore di Fisica all’Università Pierre e Marie Curie, che, per la prima volta, hanno riprodotto al computer il celebre esperimento di Stanley Miller, con il quale, nel 1953, si dimostrò, in laboratorio, la possibilità di formare spontaneamente gli aminoacidi, le molecole base della vita, sottoponendo a intense scariche elettriche le semplici molecole inorganiche presenti nel brodo primordiale, così come ipotizzato, già nel 1871, da Charles Darwin. Trattando le interazioni dei singoli atomi a livello quantistico, i due ricercatori sono riusciti ad individuare i meccanismi coinvolti in queste reazioni chimiche su scala atomica e a determinare le condizioni necessarie per la sintesi degli aminoacidi. “Abbiamo simulato al computer il comportamento di una miscela di molecole semplici (acqua, ammoniaca, metano, monossido di carbonio, azoto), sottoponendola a intensi campi elettrici”, spiega Saija. “L’effetto di tali scariche elettriche, dell’ordine dei 50 MV/cm, ha determinato la trasformazione delle molecole del sistema iniziale in altre via via più complesse, fino alla comparsa della glicina, l’aminoacido più semplice in natura, considerato il ‘mattone fondamentale’ per costruire peptidi e proteine.”. Tali intense scariche elettriche simulano l’azione dei fulmini, presenti nell’ambiente terrestre primordiale. Gli autori di questo lavoro, pubblicato, questa settimana, sulla rivista dell’Accademia delle scienze americana ‘Pnas’, hanno dimostrato, mediante tecniche avanzate di simulazione numerica, che queste reazioni avvengono attraverso stadi di reazione più complessi di quanto supposto in precedenza, individuando il campo elettrico come sorgente di energia fondamentale nell’innescare la formazione degli amminoacidi e identificando gli acidi formico e cianidrico e la formammide come prodotti intermedi ‘chiave’ per la sintesi degli aminoacidi e, quindi, dei precursori del dna e degli acidi metabolici. “La portata di questo studio si spinge al di là degli esperimenti di Miller”, prosegue il ricercatore dell’Ipcf-Cnr, “poiché campi elettrici estremamente intensi, anche se molto localizzati, sono presenti, in natura, sulla superficie dei minerali che si trovano nelle profondità della Terra. Questo risultato pionieristico suggerisce dunque la necessità di esplorare a fondo il ruolo di tali campi: sia per comprendere i meccanismi chimici che hanno portato allo sviluppo di molecole biologiche sempre più complesse, sia per sfruttare le enormi opportunità che questo tipo di simulazioni numeriche quantistiche possono aprire in molti ambiti scientifici, dall’elettrochimica alla neurobiochimica.”. “L’attività da cui nasce questo articolo si inquadra nello studio dei sistemi macromolecolari, polimeri e fluidi complessi, condotto tramite metodi di simulazione numerica all’Istituto per i processi chimico-fisici afferente al Dipartimento Scienze chimiche e tecnologie della materia del Cnr”, sottolinea il direttore, Cirino Salvatore Vasi. “Da questa ricerca è stato possibile chiarire alcuni meccanismi fondamentali alla base delle reazioni chimiche prebiotiche, che aprono nuove frontiere per lo studio dell’origine della vita e per applicazioni nell’ambito delle biotecnologie.”.
Ufficio Stampa CNR

(9 settembre 2014)