lunedì 20 gennaio 2014

notizie sul popper

Gentilissimi,
la Fanciulla Orientale ha richiesto informazioni sulla sostanza stupefacente nota come "Popper".
Presumendo NON si tratti di Karl Popper, e presumendo la richiesta sia per una ricerca o relazione, suggerisco, da buona nonna, di effettuare ricerche mediante dizionari ed enciclopedie. Sicuramente le enciclopedie a carattere medico sono quelle maggiormente consigliate.
Lascio, tuttavia, alcuni link per ulteriori informazioni. Si tratta di siti in italiano, sebbene le più aggiornate news siano in lingua inglese. Il primo sito, ovviamente, è da Wikipedia.

popper 1

popper 2

popper 3

popper 4

Il quarto sito riporta info su altre sostanze stupefacenti; il terzo è un articolo giornalistico. Vi chiedo, poiché protetto da copyright, di citare correttamente la fonte, come sempre si deve fare. Inserite pure la Sitografia.

Buona ricerca alla Fanciulla Orientale. NR

sabato 18 gennaio 2014

i pinguini e il volo

Gentilissimi,
Vi lascio ad un recente articolo tratto dalla newsletter Le Scienze. Vi chiedo scusa se, questa volta, non ho inserito la data di pubblicazione. Semplicemente, con molta probabilità, l'ho cancellata.
L'articolo è stato parzialmente modificato, senza alterarne il senso, per una più facile lettura. NR

animali evoluzione fisiologia
Perché i pinguini non sanno più volare

© Jay Dickman/Corbis 
Il confronto tra i costi metabolici del volo e del nuoto in immersione, in alcuni uccelli marini, dimostra che è stata l'ottimizzazione delle prestazioni natatorie a far perdere completamente ai pinguini la capacità di volare, che, in genere, è evolutivamente vantaggiosa. L'efficienza in una delle due modalità di locomozione, infatti, va a scapito dell'altra. (red) 
Perché alcuni uccelli marini, primi fra tutti i pinguini, hanno perso la capacità di volare? La risposta, trovata da un gruppo di ricercatori dell'Università del Manitoba, a Winnipeg, in Canada, che firmano un articolo, pubblicato sui “Proceedings of the Natinal Academy of Sciences”, sta nelle diverse esigenze che bisogna soddisfare per spostarsi con efficienza nell'aria e nell'acqua. Dal punto di vista evolutivo, non è facile spiegare la perdita di una capacità altamente adattativa, come il volo, che offre molti vantaggi a chi la possiede, primo fra tutti quello di ridurre notevolmente la mortalità per attacchi di predatori. Se è vero, infatti, che le elevate esigenze energetiche del volo talvolta possono essere svantaggiose, specialmente in ambienti con bassa produttività e/o in cui il rischio di predazione è ridotto, come nel caso degli uccelli non volatori su isole prive di predatori, questo non vale per gli uccelli marini, che spesso sfruttano acque ricche di pesce, ma diventano così più vulnerabili alla predazione da parte di foche, cetacei e squali.
 

Un'uria spicca il volo. (Cortesia Kyle H. Elliott) 
Nel caso dei pinguini, poi, che percorrono lunghe distanze tra le aree di riproduzione e di alimentazione, si aggiungono i costi di un viaggio che potrebbe essere compiuto con minor sforzo, e molto più in fretta, volando, piuttosto che camminando o nuotando. Kyle H. Elliott e colleghi hanno sottoposto a verifica un'ipotesi biomeccanica alternativa, secondo cui, in questi uccelli, l'incapacità di volare sarebbe il frutto di una serie di compromessi volti a ottimizzare la locomozione a propulsione alare nei diversi mezzi attraverso cui si muovono, ossia aria e acqua. In altri termini, via via che le ali diventano più efficienti per il nuoto si riduce la loro efficienza per il volo, e viceversa. I ricercatori hanno misurato i costi energetici del volo e dell'immersione in due specie di uccelli marini, che nelle immersioni sfruttano, rispettivamente, la propulsione alare, come l'uria di Brünnich (Uria lomvia), e la spinta delle zampe, come il cormorano pelagico Phalacrocorax pelagicus. Hanno così scoperto che i costi energetici del volo, sia delle urie sia dei cormorani, sono i più alti registrati per un vertebrato, e che quelli delle urie sono addirittura del 33 per cento superiori a quanto previsto dalla modellazione biomeccanica basata sulla forma del loro corpo. Questa scarsa efficienza in volo, legata al metabolismo muscolare, permette, però, una maggiore resistenza in immersione, che, tuttavia, non arriva al drastico abbassamento del fabbisogno di ossigeno che caratterizza il metabolismo dei pinguini in immersione profonda. E' quindi verosimile, scrivono i ricercatori, che nel corso della loro evoluzione i pinguini siano riusciti ad aumentare notevolmente le loro capacità di approvvigionamento alimentare a profondità sempre maggiori, attraverso una riduzione dell'apertura alare, l'allargamento delle ossa dell'ala, l'aumento della massa corporea. Queste caratteristiche sono state però pagate dei pinguini con una progressiva inefficienza di volo, fino alla perdita completa di tale capacità.

un gioco con le leve

Gentilissimi,
la Proprietaria di un Prosciutto di Cavallo mi ha chiesto un gioco sulle leve.
Ho provato ad accontentarLa. Il gioco è sufficientemente intuitivo, seppur procedendo per tentativi ed errori. Provate pure a sbagliare. Cercate, tuttavia, una volta trovata la soluzione corretta, a capire come e perché la soluzione proposta è esatta. Magari, solo "magari", applicando la Matematica.
EccoVi il link relativo:

leve

NR

giovedì 16 gennaio 2014

apparato endocrino

Gentilissimi,
Vi lascio il link a un interessante documento di approfondimento sull'apparato endocrino.
Eccolo:
endocrino
Buona lettura e un augurio di proficuo studio. NR

giovedì 9 gennaio 2014

una relazione tra social network e infelicità

Gentilissimi, Vi lascio ad un articolo che susciterà sicure discussioni.
Esiste una relazione tra senso di infelicità ed utilizzo di social network? Leggete questo articolo. Leggete anche l'articolo in originale. Se volete, in seguito, commentate, sia sul blog sia in classe sia tra di Voi e con i Vostri cari.
Ecco il relativo link:

infelicità e social network

Un saluto da una nonna molto social, ma non su network. Nonna Rosa I'm a pink cloud.


martedì 7 gennaio 2014

una recente scoperta sul tatto

Gentilissimi,
Vi propongo un ulteriore studio sugli organi di senso. Come oramai ben saprete, gli studi sugli organi di senso e sul sistema nervoso, oltre che sul funzionamento dei neuroni e del cervello, hanno avuto, in questi anni, un importante impulso, oltre che cospicui finanziamenti per la ricerca.
L'articolo è tratto e modificato dalla newsletter Le Scienze. Vi ricordo che, se siete interessati, e, se leggete questo blog dovreste esserlo, l'iscrizione alla newsletter è gratuita, se non è cambiato nulla nel frattempo. Per iscriverVi dovete andare sul sito della rivista Le Scienze, selezionare newsletter, selezionare iscrizione e inserire un indirizzo di posta elettronica. Se siete alunni, come al solito raccomando che l'iscrizione sia fatta con l'avvallo di un familiare adulto. Selezionate con accuratezza i campi e gli argomenti di cui volete ricevere le news, evitando di selezionare tutto. Se siete veramente interessati, riceverete la Vostra prima newsletter nel giro di una settimana, due al massimo. Buona lettura.
P.S.: Ricordo che, come spesso accade, anche questo articolo è stato lievemente modificato per una lettura maggiormente scorrevole e facilitata. NR (Mi avete visto, nei cieli invernali, in giro sulla scopa? Ero quella con la sciarpa viola!)

percezione fisiologia neuroscienze
Un tatto fine? Questione di vibrazioni

                                                 © Paul Hudson/fstop/Corbis
La nostra capacità di distinguere, in modo molto sottile, la tessitura di una superficie con il tatto, per esempio un tessuto di seta, di raso o di lana, dipende da recettori sensoriali sensibili alle vibrazioni ad alta frequenza che vengono generate, nella pelle, dallo scivolamento dei polpastrelli sulla superficie che tocchiamo. La scoperta potrà migliorare notevolmente le neuroprotesi per persone con funzionalità ridotta della mano (red) Seta o cotone? Se siamo in grado di percepire e distinguere le tessiture più fini delle superfici che tocchiamo è grazie a recettori sensibili alle vibrazioni ad alta frequenza, che sono generate, nella pelle, dallo scivolamento dei polpastrelli sulla superficie che stiamo esaminando. La scoperta del coinvolgimento di recettori a cui finora si attribuivano solo altre funzioni è stata fatta da un gruppo di ricercatori dell'Università di Chicago, che firmano un articolo pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

Tessiture grossolane e fini sono rilevate da recettori sensoriali differenti. (© 101 Productions Ltd/ /Science Photo Library/Corbis) 
Studi precedenti avevano dimostrato che le tessiture superficiali più grossolane, come per esempio i punti della scrittura braille, sono riconosciute grazie a particolari recettori sensibili alla pressione che, in tutti i primati, si trovano densamente assiepati sui polpastrelli. Lo schema di attivazione di questi recettori, detti a lento adattamento di tipo 1, o SA1, corrisponde alla disposizione spaziale delle caratteristiche superficiali di una trama. Tuttavia erano sorti dubbi sulla possibilità che questo meccanismo potesse dar conto della capacità di distinguere fra le trame che caratterizzano molte altre superfici naturali, come per esempio il raso o la seta, per le quali sarebbe stata necessaria un densità ancora superiore. Per questo Alison I. Weber, Sliman J. Bensmaia e colleghi hanno fatto scorrere, sotto i polpastrelli di alcuni macachi rhesus, il cui sistema somatosensoriale è simile a quello degli esseri umani, alcuni tamburi rotanti, rivestiti con strisce di materiali dalla differente trama, da quelle più grossolane a quelle più fini, come delicati tessuti e materiali plastici, mentre i ricercatori registravano le risposte neuronali.

Microfotografia laser di un frammento di tessuto denim. (Cortesia Bensmaia/Un. di Chicago) 
In questo modo hanno potuto osservare che, mentre le trame più grossolane producevano la nota risposta dai SA1, questi recettori non venivano attivati dalla grande maggioranza delle tessiture più fini. Al loro posto, invece, si attivavano i corpuscoli ramificati, sensori a rapido adattamento, fino a oggi ritenuti coinvolti nella sensazione di scivolamento, come quando un oggetto sta sfuggendo di mano, e i corpuscoli paciniformi, destinati a rilevare le vibrazioni. I risultati di questo studio promettono di avere importanti ricadute sulla progettazione e realizzazione di una nuova generazione di neuroprotesi, e, in particolare, dei dispositivi con cui sostituire le funzioni sensoriali di una mano danneggiata in seguito a un incidente o a una malattia.
(02 ottobre 2013)

lunedì 6 gennaio 2014

sonno e ricordi

Gentilissimi,
per festeggiare le 10.000 visualizzazioni del blog di Matematica, Vi propongo, con scarsa coerenza, un recente articolo di Scienze. Ovviamente!
L'articolo è tratto dalla newsletter Le Scienze. Come spesso accade è stato solo lievemente modificato, al solo fine di rendere il testo maggiormente comprensibile da parte di alunni di scuola media inferiore. Dalla Vostra Befana preferita, Vi auguro buona lettura. Nonna "Befana" Rosa

neuroscienze emozioni memoria sonno apprendimento
Come usare il sonno per attenuare i ricordi paurosi
Le reazioni di paura possono essere influenzate e attenuate, in modo significativo, durante il sonno, in una fase in cui avviene il consolidamento dei ricordi. Lo ha dimostrato un nuovo studio, in cui alcuni volontari sono stati sottoposti a un esperimento di condizionamento. Il risultato offre nuove informazioni sui processi di apprendimento che avvengono durante il sonno e apre interessanti prospettive di intervento terapeutico, per esempio nel caso dei disturbi post-traumatici (red) 
I ricordi di eventi paurosi possono essere attenuati, in modo specifico, durante il sonno, come hanno dimostrato, sulla rivista “Nature Neuroscience”, Katherina K. Hauner e colleghi, del Dipartimento di Neurologia, della Feinberg School of Medicine, della Northwestern University, a Chicago. Il risultato aggiunge un nuovo tassello al complesso mosaico delle conoscenze che riguardano il tipo di apprendimento che può verificarsi quando dormiamo, suggerendo una possibile strada per il trattamento di disturbi psicopatologici legati alla paura, come il disturbo post-traumatico da stress. Nell'essere umano, il sonno è un periodo critico per il consolidamento della memoria; i nuovi ricordi sono ancora labili e possono essere influenzati da input provenienti dall'ambiente. In passato alcuni studi hanno evidenziato che i ricordi della memoria episodica (che riguardano gli episodi della vita personale) e procedurale (che riguardano il modo in cui svolgere un certo compito), appresi durante la fase di veglia in associazione con altri elementi presenti nel contesto, per esempio un profumo oppure un suono, possono essere riattivati ripresentando lo stesso stimolo durante il sonno. Nello specifico, questa riattivazione può avvenire durante il sonno a onde lente, cosiddetto per la caratteristica frequenza delle onde cerebrali che si evidenzia tramite il tracciato elettroencefalografico, e corrispondente al sonno profondo. Ma il sonno è importante anche per il consolidamento della memoria di tipo emozionale, che riguarda cioè gli aspetti più specificatamente emotivi dell'esperienza personale, sebbene i meccanismi neurali alla base di questo consolidamento siano ancora poco compresi. In particolare, i ricercatori ancora non sanno se le memorie emozionali possano essere modulate attivamente durante il sonno e, nel caso fosse possibile, quali siano le aree cerebrali coinvolte.

L'ippocampo destro, evidenziato dal riquadro blu in questa scansione coronale in risonanza magnetica, è una delle aree in cui si è riscontrata una variazione degli schemi di attivazione della risposta alla paura (Cortesia Katherina K. Hauner) 
Per chiarire questi particolari aspetti della memoria emozionale, Hauner e colleghi hanno sottoposto 15 volontari a un classico condizionamento. I soggetti dovevano osservare alternativamente due visi su uno schermo mentre venivano colpiti da una leggera scossa elettrica e, contemporaneamente, veniva diffuso nell'ambiente uno specifico odore per ciascun viso. In questo modo, ogni viso veniva associato a un odore, e le coppie viso-odore associate alla paura. In un momento successivo della giornata infatti, bastava esporre i volontari a uno degli odori usati nel condizionamento per scatenare una reazione di paura, verificata attraverso la misurazione di parametri fisiologici come la sudorazione. Gli stessi odori sono stati riproposti agli stessi soggetti mentre dormivano e si trovavano nella fase di sonno a onde lente, in cui si ritiene che avvenga il consolidamento dei ricordi. “Presentando uno degli odori durante il sonno, si riattiva il ricordo del viso associato; ripetendo il processo più volte si arriva a un effetto di estinzione della paura, simile a quello ottenuto con la 'terapia di esposizione', usata per esempio nel trattamento delle fobie, in cui il soggetto è messo di fronte, più volte, allo stimolo scatenante", spiega Hauner. Al risveglio, i soggetti erano esposti, in momenti diversi, ai visi osservati nella fase di condizionamento: nel caso del viso associato all'odore percepito durante il sonno, la reazione di paura risultava meno intensa di quella rilevata durante la veglia. Le scansioni con risonanza magnetica funzionale hanno poi confermato che l'esposizione all'odore durante il sonno aveva l'effetto di alterare gli schemi di attivazione dei neuroni dell'amigdala, regione cerebrale coinvolta nella percezione della paura. Per la prima volta dunque, con questo studio, si dimostra che le memorie preesistenti possono essere alterate durante il sonno, interferendo con il loro consolidamento. Questa conclusione potrebbe essere fornire un'interessante linea di ricerca per la terapia dei disturbi post traumatici o i disturbi d'ansia, alla cui base c'è un meccanismo di risposta di paura.
(23 settembre 2013)

venerdì 3 gennaio 2014

un'altra forma dell'acqua

Gentilissimi,
ecco un breve resoconto relativo ad una scoperta effettuata dal CNR. Il comunicato stampa è tratto dalla newsletter Le Scienze. Le modifiche apportate sono lievi e finalizzate ad una migliore, e maggiormente facilitata, lettura dell'articolo stesso. Buona lettura! NR

fisica
CNR: La forma dell’acqua? Ne ha due
Comunicato stampa - Le molecole d’acqua allo stato liquido assumono due forme di organizzazione. Misurata per la prima volta da Ino-Cnr, Lens e Università di Firenze un’ipotesi formulata 15 anni fa. Lo studio, pubblicato su Nature Communications, potrebbe spiegare il comportamento anomalo di questo liquido rispetto agli altri
Roma, 20 settembre 2013 - Il bicchiere non è solo mezzo pieno e mezzo vuoto ma, nella parte riempita dal liquido, allo stesso tempo più e meno denso. È quanto emerge dalla ricerca congiunta tra ricercatori dell’Istituto nazionale di ottica, del Consiglio nazionale delle ricerche (Ino-Cnr), il Laboratorio europeo di spettroscopie non lineari (Lens) e l’Università di Firenze, pubblicato su Nature Communications. “Impiegando una tecnica spettroscopica basata su sorgenti laser ultraveloci”, spiega Roberto Eramo, di Ino-Cnr, “abbiamo dimostrato che l’acqua, allo stato liquido, non prende semplicemente la forma del contenitore, ma ne assume contemporaneamente due: una più strutturata, simile al ghiaccio, e una più disordinata. Questa doppia natura rende l’acqua un elemento complesso da descrivere attraverso modelli matematici, e potrebbe spiegare le sue caratteristiche, anomale rispetto a tutti gli altri liquidi.”. “Il legame a idrogeno tra le molecole, che determina alcune importanti proprietà, come quella per cui il ghiaccio galleggia sull’acqua, forma all’interno di una massa di acqua liquida una struttura spaziale simile a quella di un solido, ma temporanea, con un intervallo di vita dell’ordine del millesimo di miliardesimo di secondo”, continua Renato Torre, dell’Università di Firenze, associato Ino-Cnr. “L’importanza di queste strutture transienti cresce al diminuire della temperatura, quando il legame a idrogeno diventa sempre più forte rispetto al moto di agitazione termica delle molecole.”. I ricercatori fiorentini hanno lavorato con campioni di acqua particolarmente pura, in modo da poter scendere al di sotto della temperatura di congelamento, in uno stato metastabile, noto come liquido sottoraffreddato. “Abbiamo studiato la dinamica di vibrazione e di rilassamento dell’acqua sottoraffreddata (-28 °C, senza che l’acqua congelasse) mettendo in evidenza la coesistenza di due diverse configurazioni locali, che possono essere interpretate come due forme di acqua dotate di diversa densità e regolarità della distribuzione spaziale”, conclude Eramo. “A quindici anni dalla sua formulazione, l’ipotesi della duplice forma di organizzazione molecolare dell’acqua nel suo stato liquido trova quindi conferma nei dati sperimentali. La forma dell’acqua non è, in definitiva, soltanto quella del contenitore, come nel romanzo di Andrea Camilleri.”.
(20 settembre 2013)


mercoledì 1 gennaio 2014

recettore neuronale per la dipendenza da oppioidi

Gentilissimi,
Vi propongo, all'inizio di questo nuovo anno, uno studio tratto dalla newsletter Le Scienze. Come sempre l'articolo è stato parzialmente modificato, al solo scopo di rendere meglio comprensibile il testo agli studenti. Buona lettura. NR

neuroscienze dipendenze medicina
Quando la dipendenza viene da dentro

                                                © John Lund/Blend Images/Corbis
Un recettore cruciale per la soppressione del dolore da parte degli oppioidi endogeni, sostanze analgesiche prodotte dall'organismo, sarebbe responsabile anche di una forma di dipendenza da queste stesse sostanze naturali. Un'alterazione di questo recettore, inoltre, può essere alle origini del dolore cronico (red) 
Gli oppioidi naturali sono sostanze prodotte dal nostro organismo, tra le cui varie funzioni c'è quella di inibire il dolore dopo una ferita. Secondo un nuovo studio, apparso sulla rivista “Science”, a firma di G. Gregory Corder, del Dipartimento di fisiologia, dell'Università del Kentucky, a Lexington, e colleghi, uno specifico recettore per gli oppioidi ha un ruolo cruciale sia nell'inibizione del dolore acuto in condizioni normali, sia nell'insorgenza del dolore cronico quando si manifesta una deficit funzionale. Le conoscenze sugli oppioidi endogeni hanno una storia relativamente breve. Una serie di ricerche biomediche e farmacologiche, condotte dalla metà degli anni sessanta del Novecento, portò alla conclusione che i farmaci derivati dall'oppio, come la morfina o l'eroina, potessero esplicare i loro effetti analgesici tramite specifici recettori posti sulla superficie dei neuroni. Studi successivi hanno confermato l'ipotesi, chiarendo che esistono più tipi di recettori per gli oppioidi: attualmente si distinguono tre sottotipi di recettori, indicati con le lettere greche mu, delta e kappa, più un quarto, sigma, che reagisce anche ad altre sostanze psicotrope.

Anche gli oppioidi endogeni, prodotti dall'organismo, possono dare dipendenza, secondo gli stessi meccanismi ipotizzati per la morfina: somministrando antagonisti del recettore per gli oppioidi a topi di laboratorio con una vecchia ferita si osservano sintomi di astinenza (© George Steinmetz/Corbis) 
Solo negli anni settanta, tuttavia, venne documentata l'esistenza di oppioidi endogeni, prodotti cioè dal nostro stesso organismo, in grado di legarsi in modo specifico a questi recettori, e che intervengono nella regolazione di molti meccanismi fisiologici: appetito, attività sessuale, oltre che, come suggerisce l'azione dei farmaci come la morfina, dolore. Esiste infatti un meccanismo fisiologico grazie al quale il nostro corpo, in seguito a una ferita o a una frattura, contrasta, mediante gli oppioidi endogeni, i segnali dolorosi, che altrimenti sarebbero ancora più intensi e, a volte, insopportabili. A volte il dolore acuto, invece di diminuire gradualmente, si trasforma in un dolore cronico, minacciando seriamente la qualità di vita del soggetto. I meccanismi di questa trasformazione sono rimasti finora sconosciuti, e non esiste un modo per arrestarli, ma nuove indicazioni sono emerse nella sperimentazione di Corder e colleghi. I ricercatori hanno prima indotto una ferita alle zampe in un gruppo di topi, lasciando che gli oppiodi endogeni facessero il loro corso, e poi hanno somministrato ai roditori farmaci recettori-antagonisti degli oppioidi, in grado cioè di bloccarne l'azione. Questi farmaci hanno avuto l'effetto di riattivare i neuroni che trasmettono le sensazioni dolorose e di ripristinare i comportamenti associati alla percezione del dolore, anche dopo sei mesi dopo l'infiammazione. Un dato sorprendente è che i topi trattati con antagonisti del recettore per gli oppioidi mostravano sintomi tipici dell'astinenza, come i tremori, del tutto assenti invece nei roditori non trattati. Le analisi hanno inoltre identificato nel recettore per gli oppiodi del sottotipo mu un fattore cruciale per l'inibizione del dolore a lungo termine: questo indicherebbe che il dolore cronico può instaurarsi quando questo meccanismo di inibizione viene alterato. Un ulteriore dato interessante emerso è che il recettore mu è coinvolto anche nella produzione di una proteina chiave, denominata adenilina ciclasi di tipo 1, già nota per essere coinvolta nei meccanismi di dipendenza da sostanza e di dolore cronico. I dati raccolti portano a ipotizzare che il recettore mu, oltre ad avere un ruolo fondamentale nel controllo del dolore acuto, sia anche all'origine di una dipendenza da queste sostanze, in virtù di un meccanismo di azione molto simile a quello ipotizzato per la dipendenza da morfina. Questi nuovi dati potrebbero portare a importanti progressi nei trattamenti per le dipendenze da sostanza e per il dolore cronico.
(24 settembre 2013)