Vi lascio alla lettura di un articolo, tratto e lievemente modificato dalla newsletter Le Scienze, a cui suggerisco di iscriverVi, relativo alle orme di Laetoli. L'articolo risale al dicembre 2016. Buona lettura. NR
antropologia paleontologia
Nuove orme
scoperte a Laetoli cambiano lo scenario su Lucy & famiglia
di
Folco Claudi
La scoperta di nuove impronte, nel sito di Laetoli, effettuata da
ricercatori italiani, suggerisce che A.
afarensis, la specie a cui apparteneva la famosa Lucy, vissuta in Africa
circa 3.6 milioni di anni fa, avesse una struttura sociale simile a quella dei
gorilla, specie poligama ad alto dimorfismo sessuale, e non a quella di
scimpanzé e bonobo, promiscui, o degli esseri umani moderni
Si conservano solo in circostanze
estremamente fortuite e rare, ma quando accade ci regalano un'istantanea di una
scena preistorica che racconta molte cose sui suoi protagonisti. Parliamo delle
orme fossili di antichi ominidi che possono consentire ai paleoantropologi di
ricostruire, anche dopo milioni di anni, non solo molti aspetti biomeccanici
della loro locomozione, ma anche dettagli della loro anatomia e delle loro
dimensioni, e di definire, di conseguenza, un modello delle loro modalità
riproduttive e della loro struttura sociale.
Ne sono un esempio le orme di Laeotoli,
scoperte nel 1978, dalla paleantropologa Mary Laekley, nell'area protetta di
Ngorongoro, in Tanzania, e risalenti a 3,6 milioni di anni fa. Secondo le
ricostruzioni, si tratterebbe dei segni lasciati su uno strato di ceneri
vulcaniche umide, appena emesse, appartenenti a tre individui di Australopithecus afarensis (la stessa specie della
famosa Lucy) di taglie diverse tra loro. Probabilmente era presente un
individuo di taglia più grande, il maschio, e due individui più piccoli, la
femmina e un cucciolo, che camminavano a stretto contatto. In sostanza, tutto
faceva pensare che potesse trattarsi di una piccola famiglia. Ora, grazie a una
ricerca, sostenuta dal nostro ministero degli Esteri, e condotta dalla Scuola
di Paleoantropologia dell’Università di Perugia, in collaborazione con
ricercatori delle Università Sapienza di Roma, di Firenze, di Pisa e di Dar es
Salaam, in Tanzania, sono emerse altre orme, attribuite a due individui bipedi,
che si muovevano sulla stessa superficie, nello stesso momento e nella stessa
direzione, a circa cento metri dalle tracce scoperte negli anni settanta.
Il dato più importante, ricavato dall'analisi di queste
orme, descritto in
un articolo apparso su "eLife", è che uno dei due
individui aveva dimensioni tali da farlo considerare come il più grande A. afarensis mai descritto: probabilmente era alto
1,65 metri. Se, dunque, la scoperta degli anni settanta faceva pensare a una
coppia con un piccolo al seguito, queste nuove orme disegnano una scena
diversa, con un gruppo di cinque individui, di cui uno o due in giovane età. “Il
dimorfismo sessuale si ricava dalla lunghezza delle impronte e dalla lunghezza
del passo”, ha spiegato, a "Le Scienze", Giorgio Manzi, professore di
paleoantropologia presso il Dipartimento di biologia ambientale, della Sapienza
di Roma, e autore senior dell'articolo, apparso su "eLife".
“All'interno del campione che si ottiene, combinando le nostre scoperte con
quelle degli anni settanta, si ottengono in totale cinque individui di tre
taglie diverse: presumibilmente un maschio, una femmina e individui in età di
accrescimento; il dato fondamentale è che tra il presunto maschio e la presunta
femmina c'è un grande divario in termini di dimensioni.”. Si tratta quindi di
una conclusione che s'inserisce in un quadro di conoscenze, a partire dalla
descrizione dell'olotipo, cioè del reperto di riferimento della specie A. afarensis, scoperto proprio nel sito di Laetoli. “In
questo senso si tratta di una conferma indipendente”, ha commentato Manzi. “Sul
tema esisteva già un vivace dibattito tra i paleoantropologi: da una parte
quelli che sottostimano le differenze osservate e dall'altra quelli che invece
le valutano appieno; e questo nuovo studio sposta il piatto della bilancia a
favore dei secondi.”. Le implicazioni per il modello paleoantropologico
di A. afarensis sono diverse. “Agli occhi di un
paleoantropologo, il dimorfismo sessuale ha un profondo significato, perché, come
emerge da un'ampia mole di dati biologici, richiama alla struttura sociale e
alle strategie riproduttive”, sottolinea Manzi.
In breve, la comunità di questi
australopitechi doveva essere molto simile a quella dell’attuale gorilla,
specie poligama ad alto dimorfismo sessuale, e non a quella di scimpanzé e
bonobo, che sono promiscui, né a quella degli esseri umani moderni, che sono
prevalentemente monogami. “Insomma, il quadro è molto diverso da quello della
'coppietta romantica' emerso dagli studi di Laekley”, taglia corto il
ricercatore. E per il futuro? Si può sperare di trovare altre tracce nella
stessa zona? “Certamente sì”, afferma Manzi. “Questo studio è relativo a
impronte intercettate in tre sondaggi a 20 metri l'uno dall'altro; la nostra
intenzione è congiungere l'intera pista per cercare d'intercettare altri
individui e, soprattutto, fare emergere il secondo individuo, la presunta
femmina, che per il momento è rappresentato da una sola impronta, a differenza
del primo, rappresentato da diverse impronte.”.
(14 dicembre 2016)
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