ho letto, seppur in colpevole ritardo, l'ottimo articolo pubblicato dal giornalista Pietro Greco sulla newsletter Scienzainrete, a cui, spero, Vi siate iscritti.
Come spesso accade, ho, solo lievemente, modificato l'articolo stesso, ai soli fini di una miglior fruibilità da parte di Voi alunni. L'articolo è molto interessante e, come scoprirete in questi giorni su tv e giornali, molto attuale.
Buona lettura.
ARTICOLO
SCIENZAINRETE:
«Aiutami, Marcel, sennò divento pazzo!». È il 10 agosto 1912 quando Albert
Einstein spalanca la porta del suo grande amico Marcel Grossmann, un
matematico da poco divenuto rettore del Politecnico di Zurigo, a soli 34 anni, e
implora il suo soccorso. Di anni, Einstein, ne ha uno in meno: il fisico
tedesco è infatti nato nel 1879, a Ulm, una piccola città del
Baden-Württemberg. Ma di fama ne ha già molta di più. Soprattutto da quando la
sua teoria della relatività ristretta, elaborata nel 1905, è stata accreditata
dal fisico più autorevole di quei tempi, Max Planck. Con quella teoria un
giovane e sconosciuto impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna, Albert Einstein
appunto, aveva mandato in soffitta i concetti di spazio e di tempo assoluto, e
aveva dimostrato che energia e materia sono due facce di una medesima medaglia.
In poche settimane di lavoro quel ragazzo di appena 26 anni aveva abbattuto
alcuni dei pilastri su cui, da un paio di millenni, si reggeva la filosofia
occidentale, e su cui, da un paio di secoli almeno, si reggeva la fisica di
Isaac Newton.
Eppure è solo due anni dopo, nel 1907, che nella mente di Albert Einstein si accende la lampadina più luminosa e il giovane fisico matura quella che lui stesso definisce «l’idea più felice della mia vita».
Eppure è solo due anni dopo, nel 1907, che nella mente di Albert Einstein si accende la lampadina più luminosa e il giovane fisico matura quella che lui stesso definisce «l’idea più felice della mia vita».
EINSTEIN, UN FISICO CHE CREA MEDIANTE L'INTUIZIONE
È un’idea in apparenza banale. Un’immagine. Ma, si sa, i geni sono tali
perché fanno molto con molto poco. Eccola, come la racconta Einstein medesimo,
nella sua Autobiografia: «Stavo seduto in una poltrona nell’Ufficio
Brevetti di Berna, quando, all’improvviso, mi ritrovai a pensare: se una
persona cade liberamente, non avverte il proprio peso. Rimasi stupefatto.
Questo pensiero così semplice mi colpì profondamente e ne venni sospinto verso
una teoria della gravitazione.». Facciamo un esempio, per capire cosa colpisce
Einstein. Mentre il vostro modesto cronista sta scrivendo questo articolo è
seduto a un tavolo in una stanza chiusa e senza finestre. Ebbene, senza
riferimenti esterni, né il vostro cronista né alcun altro ha una qualche
possibilità, buon senso a parte, di sapere se è in quiete nel campo
gravitazionale della Terra o se la sua stanza è stata sequestrata da una
civiltà aliena e viaggia con un’accelerazione pari a 9,8 m/s2 nello
spazio vuoto verso un’altra galassia. Le due condizioni, la quiete in un campo
gravitazionale o l’accelerazione nello spazio vuoto, sono del tutto indistinguibili
dal punto di vista fisico. Se mi scappa di mano una penna, in entrambi i casi
questa finisce sul pavimento con la medesima velocità. Mentre il palloncino di
mio figlio vola tranquillo verso il soffitto. Le due condizioni devono
essere considerate, e, anzi, sono, del tutto equivalenti. Il pensiero più
felice della vita di Einstein è il “principio di equivalenza” tra massa
inerziale (quella che si oppone a un’accelerazione) e massa gravitazionale
(quella dovuta all’attrazione della Terra e di ogni altro corpo materiale). Sulla
base di questo principio, già nel 1907, Einstein sente di poter elaborare una
teoria della relatività più generale di quella formulata nel 1905, perché in
grado di spiegare anche il comportamento dei corpi soggetti alla forza di
gravità. Detta in altri termini, Einstein comprende di poter elaborare una
nuova teoria della gravitazione universale, in grado di spiegare, a differenza
di quella di Isaac Newton, anche il comportamento dei corpi che
viaggiano a velocità prossime a quelle della luce. Ben presto si rende conto
che, nell’ambito di questa nuova teoria, la materia, una massa gravitazionale,
per esempio quella del Sole, è in grado di “curvare” lo spazio, anzi, lo
spaziotempo: ovvero la rete quadridimensionale che unifica spazio e tempo nella
relatività ristretta.
UN STUDIO MATTO PER TRADURRE IN UNA FORMULA L’IDEA PIÙ FELICE DELLA SUA
VITA
Ma torniamo al Politecnico di Zurigo e allo scoramento con cui Albert
Einstein implora l’amico Marcel Grossmann. Perché questo scoramento? Il motivo
è semplice: a cinque anni dall’idea più felice della sua vita, il giovane
fisico non è riuscito ancora a scrivere l’articolo in cui annuncia al mondo la
sua nuova teoria della relatività generale. Einstein non è un fisico analitico.
Non procede per deduzione matematica da un assunto. Lui è un fisico che crea
mediante l’intuizione. Come lui stesso dirà, la sua mente prima produce
l’immagine fisica e poi formalizza la teoria (riducendola a una formula
matematica, appunto). Così ha fatto nel 1905, con la relatività ristretta. E
così sta facendo ora, con la relatività generale. Il fatto è, però, che, nel
1905, sono passati pochi giorni, forse poche ore o pochi minuti, tra
l’intuizione per immagine e la formalizzazione. Ora sono passati cinque anni e
lui non è ancora riuscita a tradurre l’immagine, la più felice della sua vita, in
una formula matematica. Come mai? Anche a questa domanda si può rispondere
abbastanza facilmente. Nel caso della relatività ristretta, la matematica
necessaria a formalizzare l’idea fisica era semplice. Alla portata di un
giovane fisico. Nel caso della relatività generale, Einstein se ne rende conto,
c’è bisogno di “nuova matematica”. E lui non è un matematico creativo: non sa
crearla quella nuova matematica. Ecco perché, quel 10 agosto 1912, ritornando
al Politecnico di Zurigo, dopo un anno trascorso presso l’università di Praga,
spalanca la porta dell’ufficio di Grossmann e grida, disperato: «Aiutami, sennò
divento pazzo!». Marcel Grossmann è un matematico. Un matematico creativo. Ma
neppure lui sa come creare la matematica specifica di cui ha bisogno Einstein.
Ma, conoscendo la sua materia, sa dove cercarla, quella matematica difficile e
astrusa. E così indirizza l’amico verso due matematici italiani: Tullio
Levi Civita e il suo maestro, Gregorio Ricci Curbastro. Il
secondo, Ricci Curbastro, ha già inventato la “nuova matematica” di cui ha
bisogno Einstein: è il calcolo differenziale assoluto. Con il discepolo, Levi
Civita, l’ha poi sviluppata.
Grato, Albert Einstein studia il calcolo differenziale assoluto di Ricci ed entra in contatto, un lungo contatto epistolare, con Tullio Levi Civita. Ma non è facile tradurre la banale idea dell’uomo in caduta libera che non sente più il suo peso in una formula matematica che contenga una nuova teoria della gravitazione universale. Non è facile neppure con l’aiuto di Grossmann e di Levi Civita. Occorre ancora molto fatica. Molto studio matto, anche se non più disperato. In soldoni, occorrono altri tre anni e tre mesi prima che Albert Einstein riesca a tradurre in una formula l’idea più felice della sua vita. Finalmente nel 1915, cento anni fa, il fisico tedesco, ormai trasferitosi a Berlino, elabora, in maniera formale, la teoria della relatività generale e con un’equazione riesca a descrivere come la materia (col suo campo gravitazionale) curva lo spaziotempo.
Grato, Albert Einstein studia il calcolo differenziale assoluto di Ricci ed entra in contatto, un lungo contatto epistolare, con Tullio Levi Civita. Ma non è facile tradurre la banale idea dell’uomo in caduta libera che non sente più il suo peso in una formula matematica che contenga una nuova teoria della gravitazione universale. Non è facile neppure con l’aiuto di Grossmann e di Levi Civita. Occorre ancora molto fatica. Molto studio matto, anche se non più disperato. In soldoni, occorrono altri tre anni e tre mesi prima che Albert Einstein riesca a tradurre in una formula l’idea più felice della sua vita. Finalmente nel 1915, cento anni fa, il fisico tedesco, ormai trasferitosi a Berlino, elabora, in maniera formale, la teoria della relatività generale e con un’equazione riesca a descrivere come la materia (col suo campo gravitazionale) curva lo spaziotempo.
LA TEORIA ALLA PROVA
L’equazione, che tra l’altro contiene un operatore matematico che, in onore
a Ricci Curbastro, si chiama “tensore di Ricci”, costituisce una
delle conquiste più alte mai effettuate dalla ragione umana. Ma reca con sé due
difetti: 1) non ha (ancora) alcuna verifica empirica; 2) non soddisfa Einstein
(non completamente almeno). Il primo difetto verrà superato nel giro di quattro
anni. Nel 1919, infatti, un astronomo inglese, Arthur Eddington, grazie a
un’eclisse, verifica che la luce di una stella lontana è deviata dal campo
gravitazionale del Sole, proprio dell’angolo previsto dalla relatività generale
del tedesco Albert Einstein e non dell’angolo previsto dalla teoria della
gravitazione universale dell’inglese Isaac Newton. Il 7 novembre il Times di
Londra, non senza rammarico, riconosce in prima pagina: Rivoluzione
nella scienza. Nuova teoria dell’universo. Demolita la concezione di Newton.
Quello stesso giorno Einstein diventa il fisico di gran lunga più famoso del
pianeta. Un mito che, ancora oggi, risulta del tutto inossidabile. Il secondo
difetto è indicato allo stesso Einstein. La mia equazione, dirà, è fatta per
metà di marmo pregiato e per metà di legno scadente. La prima è la componente
dell’equazione che descrive la gravitazione come un campo. Un campo continuo.
La seconda è invece la componente che descrive la materia come entità discreta
e, quindi, discontinua.
In realtà la teoria della relatività generale reca con sé anche altri punti critici. Nel senso che tuttora restano problemi irrisolti, su cui i fisici teorici stanno lavorando da decenni. Partiamo dal punto che indicava l’inglese Stephen Hawking, quando sosteneva che la teoria contiene in sé il germe della sua autodistruzione. Ma solo nel senso che contiene in sé i presupposti per il proprio superamento a opera di una teoria più generale. Il punto è questo: la relatività generale può infatti essere applicata all’universo intero, come fece Einstein, nel 1917, formulando le cosiddette “equazioni cosmologiche” (con cui, sia detto per inciso, il tedesco ha inaugurato la moderna cosmologia scientifica). Ebbene, oggi sappiamo che, da 13,7 miliardi di anni, il nostro universo, rispettando la relatività generale, si espande. Creando continuamente nuovo spazio, anzi nuovo spaziotempo. Ma se riavvolgiamo il film della storia cosmica lo vedremmo contrarsi, il nostro universo, ripiegare su se stesso e concentrarsi nella “singolarità iniziale”. In un punto piccolissimo, densissimo e caldissimo, dove tutti i parametri fisici assumono un valore infinito. Ma per i fisici i parametri con valore infinito sono ingestibili e, dunque, indigeribili: un assurdo. Ecco perché, sostiene Hawking, la relatività generale contiene in sé il messaggio che occorre superare la relatività generale. In soldoni: occorre una nuova teoria, più generale, che eviti la “singolarità iniziale”. Che eviti l’assurdo.
In realtà la teoria della relatività generale reca con sé anche altri punti critici. Nel senso che tuttora restano problemi irrisolti, su cui i fisici teorici stanno lavorando da decenni. Partiamo dal punto che indicava l’inglese Stephen Hawking, quando sosteneva che la teoria contiene in sé il germe della sua autodistruzione. Ma solo nel senso che contiene in sé i presupposti per il proprio superamento a opera di una teoria più generale. Il punto è questo: la relatività generale può infatti essere applicata all’universo intero, come fece Einstein, nel 1917, formulando le cosiddette “equazioni cosmologiche” (con cui, sia detto per inciso, il tedesco ha inaugurato la moderna cosmologia scientifica). Ebbene, oggi sappiamo che, da 13,7 miliardi di anni, il nostro universo, rispettando la relatività generale, si espande. Creando continuamente nuovo spazio, anzi nuovo spaziotempo. Ma se riavvolgiamo il film della storia cosmica lo vedremmo contrarsi, il nostro universo, ripiegare su se stesso e concentrarsi nella “singolarità iniziale”. In un punto piccolissimo, densissimo e caldissimo, dove tutti i parametri fisici assumono un valore infinito. Ma per i fisici i parametri con valore infinito sono ingestibili e, dunque, indigeribili: un assurdo. Ecco perché, sostiene Hawking, la relatività generale contiene in sé il messaggio che occorre superare la relatività generale. In soldoni: occorre una nuova teoria, più generale, che eviti la “singolarità iniziale”. Che eviti l’assurdo.
"MARMO PREGIATO" E "LEGNO SCADENTE". LA RICERCA
DELL'UNITÀ IN FISICA
C’è poi la stessa autocritica di Einstein. Il problema posto dal fisico
tedesco quando descrive la duplice natura della sua formula può essere riassunto
in questo modo. C’è una parte dell’equazione (che Einstein definisce marmo
pregiato) che descrive il campo gravitazionale: un’entità diffusa nello spazio
in modo continuo. L’altra parte dell’equazione (il legno scadente) è la massa,
ovvero l’insieme di quelle unità discrete, le particelle, il cui comportamento
viene descritto, con grande precisione, dalla meccanica quantistica e dalle
teorie quantistiche di campo a essa correlate. Einstein, con la sua spiegazione
nel 1905 dell’effetto fotoelettrico e la scoperta dei “quanti di luce” (i
fotoni) e della loro ambigua dualità (si comportano sia da onde che da
corpuscoli), è stato uno dei padri fondatori della fisica quantistica. La
teoria dei quanti è stata formalizzata nella seconda parte degli anni ‘20 del
secolo scorso. Da quel momento la fisica poggia su due pilastri: la relatività
generale e la meccanica quantistica. E, tuttavia, le due grandi teorie non
risultano, a tutt’oggi, conciliabili. Molti fisici teorici, ancora oggi,
pensano che occorre rimetterli in fase, quei due pilastri divergenti, se si
vuole evitare che l’intero e maestoso edificio della fisica crolli su se stesso
(come diceva amaramente Einstein, pochi mesi prima di morire, nell’ultima
lettera scritta all’amico di penna, l’ingegnere triestino Michele Besso). Il
che significa che l’una o l’altra o entrambe le teorie (la relatività generale
e la meccanica quantistica) sono incomplete e, dunque, da modificare. Ebbene,
per quarant’anni, lo stesso Einstein si è impegnato in questo tentativo e ha
cercato una teoria unitaria, una teoria unitaria di campo continuo, che
trasformasse il legno scadente in marmo pregiato. Non c’è riuscito. Ma ancora
oggi quello della conciliazione tra le due teorie è il più grande problema
aperto della fisica. Certo, a differenza di Einstein, oggi la gran parte dei
teorici sembra più propenso a “sacrificare” il continuo e a “salvare” il
discreto. Ovvero a trasformare il marmo pregiato in un altro materiale simile a
quello che Einstein considerava legno scadente. In ogni caso, c’è chi giura che,
risolvendolo il problema della compatibilità tra relatività generale e
meccanica dei quanti, si darebbe soddisfazione anche al problema della
“singolarità iniziale” posto da Hawking (e da tanti altri). Non c’è modo
migliore, per festeggiare i cento anni della relatività generale, che
verificare come essa non sia affatto una teoria superata, ma una teoria viva.
Che entra nel merito delle questioni aperte. Perché poi Einstein consideri
marmo pregiato la descrizione del campo continuo e legno scadente la
descrizione della materia discreta è tema troppo complesso per raccontarlo in
poche righe. Per ora diciamo solo che, malgrado Einstein abbia piena percezione
di aver tagliato il traguardo più alto nella storia della fisica e, forse,
dell’intera cultura umana, resta lucido. E umile. Riconosce i meriti, ma anche
i limiti della sua teoria. Come abbiamo detto, questa lucida analisi lo porterà
a cercare per il resto della sua vita, con la stessa determinazione che lo
aveva portato a spalancare la porta dell’ufficio dell’amico Marcel e a chiedere
aiuto, una teoria ancora più generale della relatività generale. Una nuova
teoria dello spazio e del tempo, fatta tutta di marmo pregiato. Una teoria del
tutto di campo continuo, in grado di unificare, in maniera completa e organica,
tutte le forze conosciute dell’universo. Non ci riuscirà. Ne siamo certi: non
gli sarebbe affatto di consolazione sapere che, in questa ricerca, anche dopo
la sua morte, sopravvenuta il 18 aprile 1955, si sono impegnati schiere di
fisici teorici, tra i più bravi e geniali. E, a tutt’oggi, nessuno c’è
riuscito. Gli sarebbe, probabilmente, di consolazione la sua intima convinzione
che ciò che appaga il fisico non è il possesso della verità, ma la sua ricerca.
(25 novembre 2015)
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