sabato 24 agosto 2013

il DNA come codice per archivi

Gentilissimi,
che il DNA sia un codice, oramai è dato per scontato. Che sia possibile utilizzarlo come modalità di archivio, ad esempio di files, libri o altro, sino ad ora, sembrava fantascienza. A tal proposito Vi lascio una citazione dal libro "L'oceano del tempo", il cui titolo originale è "The Ocean of the years", di Roger MacBride Allen.
Il volume è stato pubblicato, qualche anno fa, nella collana Urania Oro, n° 22:
"Ma il problema sarebbe stato come estrarre l'informazione di nuovo."
"[...] perché probabilmente qualche sorta di informazione non sarebbe stata nemmeno percepita come tale. In un antico volume, per esempio, la composizione della carta poteva dire qualcosa sulla storia del libro. La tecnica di rilegatura usata, lo stile tipografico adottato, la composizione dell'inchiostro tutto parlava di com'era fatto il libro, o di chi l'aveva fatto [...] Perfino la sporcizia sulle pagine, perché in differenti epoche c'erano diversi tipi di sporco [...] Non era infrequente notare impronte digitali, e quindi identificare lo studioso che aveva consultato l'opera"

Questa non è una petizione CONTRO i formati digitali, ma una opinione sulla bellezza della COMPRESENZA delle diverse tipologie di formati. Non credo che alcun computer o e-book abbiano, o avranno, la possibilità di rendere, concretamente, l'idea del profumo delle pagine di un libro, nuovo o usato che sia. Del resto, in questi anni, ritornano gli appassionati, per altri media, del vinile, con numerosi esempi di adulti e giovani alla ricerca di LP, possibilmente originali.

Ed ecco l'articolo, tratto dalla newsletter Scienzainrete, e parzialmente modificato in leggibilità. Buona lettura! NR

ARTICOLO SCIENZAINRETE: GENETICA E INFORMATICA
L'abbiamo scritto nel DNA Tommaso Maccacaro Sc. dello spazio Istituto Nazionale di Astrofisica
È piccolo, molto piccolo. È una striscia fatta di pezzetti larghi 2,5 nanometri e lunghi 0,3, che si dispiega nelle tre dimensioni avvolgendosi a elica. Ha una struttura che si presta, con grande semplicità, a una codifica binaria, quella a cui ci ha abituato l’era digitale, fatta di computer e di informazione scritta, con lunghe sequenze di 1 e di 0. È anche molto leggero e resistente: rimane sostanzialmente inalterato per millenni. Potrebbe diventare il miglior mezzo per risolvere il problema dell’archiviazione dell’enorme quantità d’informazione quotidianamente prodotta nel mondo: libri, immagini, filmati, per non parlare della miriade di dati prodotti nei piccoli e grandi laboratori sparsi per il pianeta, o acquisiti dai telescopi a terra e nello spazio. Ci sta tutto. Perché l’informazione vi potrebbe essere immagazzinata con densità enormemente superiore a quella raggiungibile nei media usati oggi per questo scopo. È l’acido desossiribonucleico, il DNA, il materiale biologico che contiene le informazioni genetiche ereditarie che sono alla base dello sviluppo e della struttura degli organismi viventi. La prima volta che ho sentito parlare di DNA è stato nel 1962, a tavola. Mio padre (un ricercatore medico che, nella prima fase della sua attività scientifica, si occupava di genetica e microbiologia) commentò l’assegnazione del premio Nobel di quell’anno per la medicina a Watson, Crick e Wilkins, per la loro scoperta della struttura molecolare del DNA, avvenuta circa dieci anni prima, e mi spiegò cos’avevano trovato. Ricordo della struttura a doppia elica, formata da una sequenza di quattro basi (adenina, citosina, guanina e timina), che si associano a due a due, come a formare i pioli di una lunga scala attorcigliata, e che si ripetono in un ordine da cui dipende la natura e il funzionamento degli esseri viventi. L’ordine con cui si alternano queste basi codifica infatti l’informazione genetica di ogni organismo vivente conosciuto, nonché le istruzioni per il loro sviluppo. L’informazione genetica è duplicata prima della divisione cellulare, attraverso il processo di replicazione del DNA, che evita la perdita di informazione nel passaggio tra diverse generazioni cellulari. Poi, per molto tempo, di DNA non ho più avuto modo di sentir parlare, se si eccettuano le lezioni di biologia al liceo e qualche articolo di divulgazione scientifica, fino a quando, negli anni ’80 del secolo scorso, fu inventata una tecnica per analizzarlo e sequenziarlo. Poiché vi sono alcuni tratti del DNA che sono unici per ogni individuo, ci si rese conto che poteva essere utilizzato come “impronta genetica” ed esplose quindi il suo utilizzo in medicina forense. La “prova del DNA” diventò rapidamente un’espressione famigliare cui i media davano frequente risalto. Ancor più risalto glielo diede il progetto di sequenziamento del genoma umano, iniziato nel 1990, e la “genomania” che ne derivò negli anni successivi, quando, sui media, leggevamo di come ogni aspetto del nostro carattere potesse essere, in qualche modo, connesso a qualcuna di quelle particolari porzioni del DNA, i geni, che venivano man mano mappati. La realtà si è poi mostrata molto più complessa. Quando, nel 2003, il progetto Genoma Umano fu dichiarato concluso, i geni identificati risultarono in numero molto inferiore (circa 23.000) rispetto a quanto ci si aspettava, e si calcolò che essi costituivano solo qualche percento del DNA di una cellula. Sorprese il fatto che fossero di poco superiori, in numero, a quelli che caratterizzano forme di vita molto più semplici, come per esempio il moscerino della frutta o un verme. Diventava dunque difficile spiegare, sulla sola base del numero di geni, la complessità dell’organismo umano rispetto ad altre forme di vita ben più semplici. Solo recentemente si è rivalutato il ruolo del restante 95% e più del DNA, che era stato, frettolosamente, classificato come “DNA spazzatura”, semplicemente perché non se ne era capita la funzione, e si è rivolta l’attenzione non tanto al numero di geni ma a come questi vengono attivati e disattivati e, più in generale, a come interagiscono. Tutto questo ora lo sappiamo, e c’è ancora moltissimo da imparare “leggendo” quanto codificato nel DNA. Ma il DNA lo si può anche “scrivere”, e scrivendolo in maniera opportuna vi si può registrare l’informazione. Immaginiamo di far corrispondere ad adenina e citosina uno “0” e a guanina e timina un “1”. Poi mettiamo in fila le basi, alternandole secondo il codice che intendiamo registrare. Formeremo un pezzetto di DNA sintetico che, una volta letto, ci restituirà l’informazione codificata. È quello che hanno fatto ChurchGao e Kosuri, (Science, 2012, v. 337, n. 6102, p. 1628) che, con un metodo ingegnoso, hanno scritto un intero libro di 53.000 parole, corredato da 11 figure, dimostrando la fattibilità di registrare nel DNA grandi quantità d’informazione (5 megabit nel loro caso, quasi un fattore mille volte meglio del meglio fatto precedentemente da altri ricercatori). Per rendere il processo di scrittura pratico ed evitare di produrre sequenze eccessivamente lunghe, Church e collaboratori hanno scritto (con ragionevole ridondanza) una moltitudine di brevi sequenze, registrando su ognuna anche la posizione che questa doveva avere per poter poi permettere la ricostruzione ordinata del libro. Un po’ come dire che del libro venivano scritte separatamente tutte le righe e che, all’inizio di ogni riga, veniva scritto il suo numero d’ordine, così da poterle facilmente disporre dalla prima all’ultima quando sarebbe venuto il momento di ricomporre l’intero testo. I numeri che Church, Gao e Kosuri presentano per mostrare come il DNA abbia le caratteristiche per diventare il mezzo privilegiato per l’archiviazione dei dati del futuro, sono impressionanti. La densità teorica d’informazione che un grammo di DNA può arrivare a contenere è di 455 exabyte. Un exabyte equivale a un milione di terabyte, la capacità dei dischi medio-grandi attualmente installati nei personal computer, equivalente al contenuto di oltre 200 DVD completamente scritti. Anche rimanendo alcuni ordini di grandezza al di sotto di questo valore massimo, avremmo un mezzo che, per quanto riguarda la densità di informazione, non avrebbe rivali. Se vogliamo esprimere la densità in termini di byte per unità di volume fisico, i dischi rigidi e le memorie flash attualmente in commercio sono circa un milione di volte meno efficienti, anche perché, in questi casi, la scrittura dei dati è limitata alla superficie, mentre con il DNA si sfrutta il volume. Il DNA inoltre è estremamente stabile (leggiamo quello di organismi vissuti migliaia di anni fa, che risulta integro e ben conservato) e la sua struttura biologica (è così da milioni di anni) fa sì che le modalità di lettura e scrittura rimarranno costanti e disponibili nel futuro. Perché allora questa tecnica non ha ancora preso piede? Perché oggi è lenta e costosa. Church e i suoi collaboratori hanno impiegato diversi giorni per scrivere il loro libro sotto forma di DNA sintetico e le apparecchiature necessarie sono care e ingombranti. Church nota esplicitamente come il costo dei processi di sintesi e del sequenziamento del DNA stiano diminuendo molto velocemente, il primo di un fattore 5 all’anno, il secondo addirittura di un fattore 12, mentre i costi relativi ai processi di archiviazione magnetica calino solo di un fattore 1,6 all’anno. Il DNA ha ancora tanto da insegnare a genetisti e biologi, e conserva ancora molti segreti riguardo al suo ruolo e alle sue funzioni. Il suo studio è estremamente importante e sta portando a sviluppare nuove metodologie di sequenziamento, sempre più veloci, efficienti ed economiche. Church fa anche notare che stanno comparendo sul mercato i primi apparecchi palmari per il sequenziamento. È ragionevole prevedere che l’utilizzo del DNA come memoria di massa possa incentivare e velocizzare ulteriormente questi processi di miniaturizzazione e riduzione dei costi. Abbiamo già assistito a un fenomeno simile con il laser. Negli anni ’60 del secolo scorso i laser avevano dimensioni, complessità e costi tali da poter essere utilizzati solo nei laboratori di ricerca. Oggi, ma oramai da molti anni, un laser costa pochi centesimi e trova posto in una penna, che possiamo usare come puntatore durante le conferenze, o in un minuscolo lettore di DVD, che decodifica un film e ce lo fa guardare mentre siamo in viaggio. Il Large SynopticSurveyTelescope (LSST) inizierà le osservazioni del cielo all’inizio della prossima decade. Ogni notte accumulerà qualcosa come 30 terabyte di dati, circa 10 petabyte all’anno. Il Large Hadron Collider (LHC), nei periodi di funzionamento tra gennaio 2010 e dicembre 2012 ha già accumulato 60 petabyte di dati utili. Tra una decina d’anni entrerà in funzione lo  Square Kilometer Array (SKA, v. “le Stelle” n. 64, pp. 34-39), il radiotelescopio più grande e potente mai costruito, composto da migliaia di antenne, per una superficie totale di circa un chilometro quadrato. Con un tasso previsto di produzione di dati dell’ordine del migliaio di petabyte al giornoSKA sarà anche il più gigantesco generatore di informazione scientifica che l’uomo dovrà gestire. Fa dunque una certa impressione pensare che un archivio off-line e perenne di tutti i dati che questi strumenti acquisiranno nella loro vita utile potrà essere memorizzato in pochi grammi di DNA. Una volta l’espressione: “ce l’ho scritto nel DNA” era un modo di dire comune per spiegare che una qualche nostra caratteristica è profondamente radicata in noi. Presto assumerà anche il suo significato letterale, che diventerà altrettanto comune.
Tratto da Le Stelle n° 118, maggio 2013
(30 luglio 2013)


lunedì 12 agosto 2013

un doodle di Google

Gentilissimi, Vi lascio un divertente doodle di Google, che, nella giornata di oggi, festeggia un certo Schrodinger.
Già in precedenza avevamo parlato di un gatto molto strano, contemporaneamente vivo o morto. Oggi è il compleanno del suo "inventore".


Un ringraziamento a Google. La Vostra nonna (per ora viva!). NR

venerdì 9 agosto 2013

un caso di "guarigione funzionale" da HIV

Gentilissimi,
già in altre occasioni abbiamo parlato di HIV. EccoVi un articolo, tratto dalla newsletter Scienzainrete, parzialmente modificato, in cui si affronta il secondo caso di "guarigione funzionale" da AIDS. L'articolo, pur complesso e con terminologia molto difficile, penso sia, nei suoi aspetti più importanti, abbastanza comprensibile. Non ho ritenuto opportuno modificare eccessivamente il testo, al fine di non far travisare il senso dell'articolo stesso.
Buona lettura. Una nonna speranzosa. NR

ARTICOLO SCIENZAINRETE: MEDICINA
HIV: il "paziente di Berlino", forse, non è più solo 
Guido Poli  Med. Cl. Un. Vita-Salute S. Raffaele di Milano
Il limite della terapia anti-retrovirale  di combinazione (cART) è quello di fermare la replicazione di HIV in modo quasi assoluto (emergenza di ceppi resistenti a parte), ma di non scalfire i serbatoi d’infezione latente o persistente [1]. Questo è il motivo per cui, ad oggi, è noto solo il caso di Timothy Ray Brown che, a seguito di due trapianti di midollo HLA compatibile, da donatore omozigote per la delezione ∆32 del gene CCR5 (un corecettore obbligatorio per l’infezione virale in associazione al recettore primario CD4), è risultato curato “funzionalmente” dal virus HIV.  Il termine “cura funzionale” indica la soppressione del numero di cellule infettate a livelli non misurabili con le pur sofisticate e sensibili metodiche odierne, che, anche in assenza di farmaci antivirali, non siano più in grado di propagare l’infezione ad altre cellule bersaglio.  Un correlato importante della “cura funzionale” è che il virus residuo non possa essere trasmesso ad altri per via sessuale, ematica o da madre a feto o bambino. Si tratta di un obiettivo pre-finale, in quanto lo stato di “eradicazione”, ovvero di sterilizzazione dal virus, è forse impossibile da dimostrarsi, ammesso che possa essere raggiunto [1]. Ebbene, la 20esima Conferenza sui Retrovirus e le Infezioni Opportunistiche (CROI) conclusasi, da pochi giorni, ad Atlanta, in Georgia, USA (sede dei Centers for Disease Control che, per primi, hanno descritto, in uno scarno bollettino, l’emergenza di una nuova patologia mortale che colpiva gli omosessuali maschi, nel 1981 [2]) ha acceso i riflettori mondiali sul probabile secondo caso di paziente “curato funzionalmente”: una bambina di 28 mesi, nata prematura spontaneamente per via vaginale, in un’area rurale del Mississippi da una madre sieropositiva, il cui stato d’infezione è stato acclarato durante il parto e che, quindi, non ha ricevuto farmaci antiretrovirali durante la gravidanza. La diagnosi d’infezione da HIV-1 della bambina è stata confermata da due test indipendenti, che hanno dimostrato la presenza sia di DNA che di RNA (che ha raggiunto circa 20,000 copie di RNA/ml, poche, per un neonato in cui si possono osservare valori anche di milioni di copie/ml), per cui è iniziata subito, fin dalla 31esima ora di vita, una cART standard (ZT+3TC+Nevirapina), interrotta, per motivi non chiari, al 18esimo mese di vita. Test successivi ai giorni 6,12 e 20 di vita hanno confermato lo stato d’infezione della neonata e la sua attesa risposta alla terapia, ma dal giorno 29 in poi tutti gli indicatori d’infezione si sono negativizzati. Un test ultrasensibile, eseguito al 24esimo mese di vita, ha dimostrato una singola copia di RNA plasmatico, ma non la presenza di DNA virale. Altre tracce d’infezione sono state poi confermate al 26esimo mese. I linfociti T CD4+ della bambina sono rimasti sempre a livelli normali, sia durante la terapia che dopo la sua sospensione. Dal punto di vista genetico, sia la madre che la bambina sono portatrici del gene CCR5 selvatico e condividono la maggioranza di alleli HLA senza evidenza di alleli protettivi, come discusso in seguito. Ogni tentativo di isolare il virus (quindi di dimostrarne la capacità replicativa) dalla bambina è fallito, anche quando sono stati utilizzati 22 milioni di leucociti circolanti. Inoltre, non sono state dimostrate evidenze della presenza di anticorpi anti-HIV, né di risposte cellulo-mediate agli antigeni più comuni (Gag, Nef), il che ha suggerito ai ricercatori che il virus non abbia potuto integrarsi stabilmente e costituire i classici serbatoi virali d’infezione latente, che ne garantiscono la persistenza, in un individuo, vita natural durante [3]. Alternativamente (ipotesi questa che personalmente ritengo più sostenibile scientificamente) è possibile che la combinazione di una terapia precoce e della presenza di anticorpi materni anti-HIV (e forse di un virus parzialmente difettivo o attenuato) abbiano eliminato le prime cellule infettate o le abbiano ridotte numericamente a un livello così basso da non permettere la propagazione del virus, anche in seguito alla sospensione della terapia antivirale. E’ qui importante sottolineare la distinzione tra “cura funzionale” ed altre rare (meno del 5% degli individui infettati) forme spontanee di controllo della replicazione virale e della progressione di malattia, quali le persone definite “long-term non progressor (LTNP)” e gli “Elite/HIV Controller (ELC/HIC)”. Queste persone, senza mai aver assunto farmaci antiretrovirali, sono in grado di mantenere, oltre a buone condizioni generali di salute, anche i loro linfociti T CD4+ circolanti, al di sopra di 500 cellule/µl, per molti anni, addirittura decenni (nel caso degli LTNP) o i livelli di virus circolante (viremia) al di sotto della soglia di rilevazione (in genere, meno di 50 copie di RNA virale/ml, nel caso dei ELC) per almeno 12 mesi [4]. Tra i fattori che determinano queste condizioni favorevoli di risposta all’infezione, i più noti sono l’eterozigosi CCR5-∆32, che riduce i livelli di espressione in superficie del corecettore necessario al virus per infettare le cellule CD4+, e il possedere alcuni alleli del complesso maggiore d’istocompatibilità (MHC), in particolare della classe I (HLA-B27 e B-57) o non possederne altri (B35).  Più recentemente, è emersa una nuova categoria di pazienti in grado di controllare l’infezione e la progressione di malattia, almeno per un certo periodo. Sono persone infettate accomunate dal fatto di avere iniziato una cART molto precocemente, durante la loro infezione primaria, ed averla mantenuta per alcuni anni per poi interromperla. Queste persone, descritte da un team francese come la “Coorte Visconti” [5], controllano per diversi anni la loro viremia spontaneamente, senza dover ricominciare la terapia, ed è importante, oltre che curioso, sottolineare che, a livello genetico, non possiedano gli alleli protettivi del sistema MHC, ma, anzi, sia frequente la presenza di HLA-B35, un allele ritenuto “cattivo”.  E’ possibile che la bambina del Mississippi sia un esempio di “Visconti” pediatrico? Che cosa ci insegna questo nuovo caso, che mantiene comunque diversi aspetti che dovranno essere verificati nel tempo prima di poter concludere, definitivamente, che “il paziente di Berlino non è più solo”? Il primo insegnamento è che il bambino “non è un piccolo uomo”, come si dice nei corsi di pediatria all’università, ed ha forse risorse superiori per superare alcune patologie, anche se, almeno nei primi mesi di vita, deve contare sugli anticorpi materni per difendersi dalle infezioni. Conoscere meglio lo sviluppo del sistema immunitario del bambino potrebbe rivelare nuovi meccanismi di controllo dell’infezione da HIV e di altri virus in generale.  Il secondo, e più generale, insegnamento che ci viene dalla piccola bambina del Mississippi (ma soprattutto dai suoi curanti) è che non bisogna mai perdere la speranza di superare gli ostacoli che oggi appaiono insormontabili nel progresso della conoscenza scientifica e della medicina, messaggio fondamentale per tutti i soggetti, pubblici e privati, responsabili dei finanziamenti alla ricerca biomedica. Purtroppo, come sottolineato anche da queste colonne, l’Italia sembra aver rinunciato (definitivamente?) ad essere protagonista nell’ambito della ricerca sull' HIV, se non per i livelli eccellenti delle proprie strutture assistenziali e della loro ricerca clinica, principalmente finanziata dalle multinazionali farmaceutiche. Auguriamoci, quindi, che il messaggio di speranza che viene dalla conferenza di Atlanta contagi i nostri politici, perché anche l’Italia possa ritornare tra i protagonisti della ricerca a tutto campo nell’ambito di una delle patologie più importanti della nostra era, che continua a propagarsi, nonostante i progressi ottenuti in questi anni.
Referenze:

[1] Deeks SG, Autran B, Berkhout B, Benkirane M, Cairns S, Chomont N, et al. "Towards an HIV cure: a global scientific strategy". Nature reviews. Immunology 2012,12:607-614.
[2] Pneumocystis pneumonia--Los Angeles. "MMWR. Morbidity and mortality weekly report1981,30:250-252.
[3] Cohen J. HIV/AIDS. "Early treatment may have cured infant of HIV infection". Science 2013,339:1134.
[4] Grabar S, Selinger-Leneman H, Abgrall S, Pialoux G, Weiss L, Costagliola D. "Prevalence and comparative characteristics of long-term nonprogressors and HIV controller patients in the French Hospital Database on HIV". 
Aids 2009,23:1163-1169.
[5] Goujard C, Girault I, Rouzioux C, Lecuroux C, Deveau C, Chaix ML, et al. 
"HIV-1 control after transient antiretroviral treatment initiated in primary infection: role of patient characteristics and effect of therapy".Antiviral therapy 2012,17:1001-1009.
(10 marzo 2013)


martedì 6 agosto 2013

Foto di Marte

Gentilissimi,
Vi lascio un link, dalla newsletter Le Scienze, che spero, abbiate imparato ad apprezzare, con stupende immagini della superficie di Marte. Buona visione e buona lettura. NR

foto superficie di Marte


lunedì 5 agosto 2013

un nuovo approccio alle dipendenze

Gentilissimi,
Vi lascio in lettura un recente articolo, tratto e modificato dalla newsletter Le Sciene. Buona lettura.
Nonna Rosa

neuroscienze dipendenze disturbi mentali
Nei circuiti cerebrali l'inclinazione naturale alle dipendenze


                                                        © Wavebreak Media Ltd./Corbis
Il comportamento di ricerca compulsiva di una sostanza d'abuso dipende dallo sviluppo e dalla forza relativa di due circuiti cerebrali, che si distinguono per il tipo di recettore della dopamina dei loro neuroni. Uno dei due circuiti aumenta fortemente il rischio di dipendenza, mentre l'altro conferisce una maggiore capacità di resistervi. La scoperta apre le porte a nuovi possibili bersagli terapeutici nel trattamento delle tossicodipendenze (red)
Il rischio di diventare dipendenti da sostanze d'abuso è legato alla stabilità e all'efficienza delle sinapsi di alcuni circuiti cerebrali, situati in una specifica regione del cervello: il nucleo accumbens. A stabilirlo è una ricerca, condotta da neuroscienziati e biologi molecolari dei National Institutes of Health, a Bethesda, che firmano un articolo, pubblicato su “Nature Neuroscience”. L'esposizione a sostanze d'abuso innesca, spesso, comportamenti caratterizzati da una forte perseveranza nella ricerca della droga, accompagnata da una motivazione altrettanto forte. Tuttavia, questi comportamenti si manifestano con una facilità e un'intensità variabili da individuo a individuo, a cui corrisponde una maggiore o minore probabilità di diventare dipendenti.  Per comprendere il meccanismo cellulare sottostante a questa variabilità, i ricercatori hanno addestrato un gruppo di topi a compiere un compito che permetteva loro di autosomministrarsi cocaina, per poi controllare la quantità di lavoro che i singoli animali erano disposti a sobbarcarsi per ottenere la ricompensa.

                Schema dei circuiti cerebrali della ricompensa, di cui fa parte il nucleo accumbens. 
                                                (© FERNANDO DA CUNHA/BSIP/Corbis)
I ricercatori hanno così scoperto che, nei topi più inclini a una ricerca compulsiva della droga, alcuni circuiti neuronali del nucleo accumbens, un centro cerebrale deputato all'elaborazione delle risposte agli stimoli gratificanti, si caratterizzavano per la stabilità e l'efficienza delle sinapsi fra i loro neuroni. Queste sinapsi erano quelle in cui era presente un particolare tipo di recettori per il neurotrasmettitore dopamina. Le sinapsi dei neuroni del nucleo accumbens presentano due tipi differenti di recettori per la dopamina, indicati come D1 e D2: i neuroni che esprimono sinapsi con i recettori D1 hanno collegamenti diretti con le aree cerebrali del mesencefalo, mentre i neuroni che esprimono i recettori  D2 sono collegati al mesencefalo solo in modo indiretto. I topi in cui erano particolarmente stabili ed efficienti le sinapsi dei circuiti neuronali della via diretta erano quelli che mostravano un comportamento compulsivo di ricerca della droga, al contrario di quelli in cui erano più sviluppate le sinapsi della via indiretta, che tendevano a non manifestare il comportamento o a manifestarlo solo in misura modesta. Dal momento che la presenza di recettori di tipo D1 oppure D2 dipende dall'attivazione di geni differenti, una nuova opzione per il trattamento delle dipendenze potrebbe essere quella di somministrare sostanze in grado di interferire con l'espressione di quei geni, indebolendo la stabilità delle sinapsi con recettori D1 e rafforzando, invece, quella delle sinapsi con recettori D2.
(03 aprile 2013)


sabato 3 agosto 2013

fitoplancton

Gentilissimi,
al seguente link potrete ammirare stupende fotografie di fitoplancton. L'articolo è nella newsletter Le Scienze.
Nonna Rosa

fitoplancton


giovedì 1 agosto 2013

novità sul capside HIV

Gentilissimi, Vi lascio in lettura un articolo, tratto e modificato dalla newsletter Le Scienze, relativo al capside del virus HIV, che, come ben sapete, o dovreste sapere, porta alla malattia AIDS, di cui abbiamo parlato in altre occasioni. Buona lettura! Nonna Rosa

chimica microbiologia computer science
Tutti i particolari sul capside dell'HIV
Ricostruita in dettaglio la struttura chimica del capside dell'HIV-1, una complessa architettura di 1300 proteine, tutte identiche, denominate CA, legate a formare pentagoni ed esagoni. A rendere possibile il risultato sono state le eccezionali capacità di calcolo di un supercomputer dell'Università dell'Illinois, combinate con dati sperimentali, ottenuti con sofisticate tecniche di tomografia elettronica (red) 
La struttura chimica dettagliata del capside dell'HIV-1, l'involucro che protegge il materiale genetico del virus, è stata ricostruita da un gruppo di ricercatori dell'Università dell'Illinois, coordinati da Klaus Schulten, che hanno effettuato una serie di simulazioni al computer, integrandole con i dati sperimentali ottenuti dai colleghi della stessa università e della Vanderbilt University. La conoscenza dettagliata della struttura del capside è una premessa fondamentale per capirne le funzioni e trovarne i punti deboli che possano costituire un possibile bersaglio terapeutico.



      Rappresentazione artistica del capside virale dell'HIV (cortesia Klaus Schulten/Juan Perilla) 
Il risultato di Schulten e colleghi, che firmano un articolo sulla rivista "Nature", è stato possibile grazie a un nuovo super-computer, chiamato Blue Waters, del National Center for Supercomputing Applications, dell'Università dell'Illinois. L'eccezionale capacità di calcolo di questo computer, che raggiunge le petascale (cioè un milione di miliardi di operazioni in virgola mobile al secondo), è infatti all'altezza del compito di condurre simulazioni con questo grado di complessità: il capside è formato da circa 1300 proteine e 64 milioni di atomi. Gli studi effettuati in precedenza, con tecniche diverse, avevano mostrato che il capside dell'HIV è formato da un gran numero di proteine identiche, legate a formare pentagoni ed esagoni, a loro volta organizzati a formare una struttura tridimensionale conica. Tuttavia non erano stati in grado di determinare, con esattezza, il numero di proteine coinvolte e il modo in cui si combinano tra loro pentagoni ed esagoni. La proteina del capside dell'HIV-1, o brevemente proteina CA, ha la proprietà di assemblarsi spontaneamente in eliche e tubi, molto simili al cono del capside virale, quando è posta in opportune condizioni in vitro. Queste strutture, e in particolare le regioni proteiche critiche per l'assemblaggio e la stabilità del capside, possono essere studiate con tecniche microscopiche. Schulten e colleghi hanno esposto le proteine CA a condizioni fortemente saline, inducendo le proteine ad assemblarsi in tubi reticolari, la cui superficie è composta da esagoni, come nel caso delle molecole di fullerene. Una volta completata questa fase preliminare di studio su piccola scala, i ricercatori hanno definito la struttura completa mediante una tecnica di tomografia crio-elettronica, che consente di ricostruire la struttura tridimensionale di un campione, mantenuto a temperature criogeniche, a partire da scansioni bidimensionali. Le simulazioni hanno rivelato che il capside dell'HIV-1 contiene 216 esagoni e 12 pentagoni, in pieno accordo con i dati sperimentali. Poiché la forma complessiva è a cono, gli angoli con cui si legano possono variare da una regione del capside all'altra. Questa circostanza, unita al fatto che la proteina CA è l'unica unità di base della struttura, porta i ricercatori a ipotizzare che sia intrinsecamente flessibile e a concludere che la presenza dei pentagoni permette alla struttura di chiudersi, cosa che non sarebbe possibile se il capside fosse composto di soli esagoni (un po' come avveniva con i vecchi palloni da calcio in cuoio, in cui gli esagoni bianchi si alternavano a pentagoni neri). L'importanza del risultato è dovuta al fatto che una conoscenza dettagliata della struttura dell'HIV consentirebbe agli scienziati di saperne ancora di più sulla sua attività e permetterebbe anche di sperimentare nuovi approcci farmacologici. “Il capside dell'HIV ha due compiti tra loro difficilmente conciliabili: deve proteggere il materiale genetico ma, una volta che il virus è entrato nella cellula, deve rilasciare questo materiale non troppo rapidamente e nemmeno troppo lentamente: è in questa fase che possiamo inserirci per distruggerlo”, commenta Schulten.
(03 giugno 2013)