giovedì 30 luglio 2015

profumo di cometa

Gentilissimi,
ho trovato, sulla newsletter Scienzainrete, un interessante articolo sull'esperimento Rosina. L'articolo, di C. Elidoro, è stato lievemente modificato. Del resto si parla di Rosetta e Rosina! Volete che nona Rosa non ve lo proponga? Se la risposta fosse "sì", avete sbagliato blog. Se, al contrario, Vi interessano tali argomenti, allora buona lettura! NR

ARTICOLO SCIENZAINRETE:
Il profumo della cometa di Claudio Elidoro Scienze dello spazio
E' dall'inizio di agosto che gli strumenti dell'esperimento ROSINA (Rosetta Orbiter Sensor for Ion and Neutral Analysis), a bordo della sonda Rosetta, stanno esaminando i vapori prodotti dalla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko nel suo graduale avvicinamento al perielio (il giro di boa attorno al Sole avverrà il prossimo 13 agosto).  I primi dati raccolti dagli strumenti sono già stati diffusi, a settembre, nel corso dell'EPSC 2014 (European Planetary Science Congress 2014), tenutosi a Cascais, in Portogallo. ROSINA è un esperimento complesso, composto da tre distinti strumenti: due spettrometri di massa (DFMS e RTOF), le cui capacità si integrano a vicenda, e un sensibile rilevatore di pressione (COPS). Progettati e realizzati da una decina di Istituti di ricerca, gli strumenti di ROSINA hanno, come obiettivo, la determinazione della composizione della chioma della cometa, la misurazione delle temperature e delle velocità dei gas e degli ioni che la compongono e l'individuazione delle reazioni chimiche che vi si svolgono. Un obiettivo ambizioso, ma alla portata dei delicati strumenti dell'esperimento. Basti dire che i due spettrometri sono in grado di individuare gli elementi chimici entro un intervallo di massa estremamente ampio che va da 1 a 300 uma (unità di massa atomica). Il che significa che riescono a rilevare sia un singolo atomo di idrogeno sia complesse strutture quali le molecole organiche.  L'elevata risoluzione delle misurazioni, inoltre, permette di distinguere tra loro composti con massa davvero molto simile, per esempio CO da N2 oppure 13C da 12CH, consentendo di costruire una mappatura davvero accurata e attendibile degli elementi e dei composti chimici presenti nella chioma della cometa. Per di più una mappatura realizzata in loco, come non accadeva dai tempi della sonda Giotto allorché, era il 13 marzo 1986, quella storica sonda transitò a poco meno di 600 chilometri dal nucleo della cometa di Halley. Ora abbiamo la possibilità di analizzare la chioma di una cometa da una distanza di pochi chilometri. I dati finora raccolti hanno permesso, anzitutto, di scoprire come la chioma della cometa, benché si trovi a più di 400 milioni di chilometri dal Sole, sia sorprendentemente ricca di composti chimici. Il rapporto tra questi composti all'interno della chioma non è costante, ma varia in modo piuttosto significativo: considerando, per esempio, il monossido di carbonio, si passa da regioni in cui è abbondante quanto l'acqua ad altre in cui il suo rapporto si riduce a solo un decimo. Le quantità rilevate sono ancora esigue: la produzione di materiale volatile andrà aumentando sempre, più man mano la cometa si avvicinerà al perielio. Tali rilievi hanno comunque permesso ai ricercatori di farsi un'idea di quale potrebbe essere l'aroma della chioma cometaria. Kathrin Altwegg (Università di Berna), Principal Investigator dell'esperimento ROSINA, descrive così, in una nota stampa diffusa qualche giorno fa, il possibile effluvio emanato dalla cometa: “Si tratta di un profumo piuttosto forte, un misto tra l'odore sgradevole di uova marce (acido solfidrico), quello pungente dello stallatico (ammoniaca) e quello soffocante della formaldeide, il tutto miscelato con il tocco amarognolo al sapore di mandorla dell'acido cianidrico. Ora aggiungiamo, in parti uguali, una punta alcolica (metanolo) e un tocco d'aceto (anidride solforosa) e, per finire, un pizzico di aroma dolciastro (solfuro di carbonio). Ed ecco realizzato il profumo della nostra cometa.”. Decisamente poco poetico, insomma, l'olezzo che lascia dietro di sé la cometa 67P/C-G. Anche se, con le quantità in gioco, per riuscire a percepirlo bisognerebbe essere dotati di un fiuto da cane da tartufi. Fortunatamente, poi, tutti quei composti maleodoranti sono abbondantemente diluiti in quelle che sono le componenti principali della chioma cometaria: acqua e anidride carbonica (praticamente acqua gassata), integrate da monossido di carbonio. Al di là del gioco del profumo, la determinazione accurata della composizione della chioma cometaria potrà permettere di giungere a stabilire la composizione della cometa stessa.  I ricercatori potranno così indagare sulle differenze tra le comete che, come la 67P/C-G, provengono dalla Fascia di Kuiper e quelle che, come la Siding Spring, passata di recente nei pressi di Marte, provengono invece dalla più distante Nube di Oort. Racchiuse in quelle composizioni ci potrebbero essere le risposte a molti dubbi riguardanti la primissima infanzia del nostro Sistema planetario.
Per approfondire:
ROSINA Homepage - Università di Berna

(6 novembre 2014)

lunedì 27 luglio 2015

universi paralleli

Gentilissimi,
con un ricordo particolare per Miss Prosciutto di Cavallo, Vi lascio ad un approfondimento, tratto e modificato dalla newsletter Scienzainrete, Si parla di universi paralleli. Nell'articolo originale vi sono numerosi rimandi, non in Bibliografia, ad altri articoli. Se pensate Vi sia utile, cercate l'articolo originale nella news citata. L'articolo è interessante in quanto propone, o ripropone con modifiche, una ipotesi affascinante. Buona lettura! NR

ARTICOLO SCIENZAINRETE:
Se gli universi “paralleli” non sono paralleli Filippo Bonaventura  Fisica ed. sc., div. scientifica
Esistono universi paralleli? La domanda è tra le più “grandi” che siano emerse dalla fisica del XX secolo, e il dibattito è ancora aperto. Il contributo più recente viene da due fisici australiani, Howard Wiseman Michael Hall, e uno statunitense, Dirk-André Deckert, con un articolo pubblicato, qualche giorno fa, su Physical Review X. I tre autori sostengono che sembrerebbe non esserci nulla di sbagliato a immaginare che il nostro universo sia solo uno dei tanti: anzi, in questo modo si potrebbero spiegare alcune caratteristiche particolarmente “spinose” della fisica dei quanti. La meccanica quantistica non è solo necessaria per spiegare il comportamento della natura a livello fondamentale: nella sua versione relativistica è anche la teoria più comprovata e “di successo” di tutta la fisica. Le equazioni, insomma, funzionano bene; ma non c’è ancora consenso su come vadano interpretate. «Dio non gioca a dadi», commentava, per esempio, Albert Einstein, particolarmente scettico sul ruolo apparentemente fondamentale della probabilità in meccanica quantistica.  Fu proprio nel dare un’interpretazione alla meccanica quantistica che allontanasse il “fantasma” delle probabilità che affiorò, per la prima volta nella scienza moderna, l’idea degli universi paralleli.  Nel 1957, infatti, il fisico americano Hugh Everett III formulò la cosiddetta “interpretazione a molti mondi” della meccanica quantistica. «La stranezza dell’interpretazione a molti mondi», spiega Wiseman, direttore del Centre for Quantum Dynamics, alla Griffith University, «sta nel postulare che, ogni volta che si compie un’osservazione su un sistema quantistico in un universo, quell’universo si “dirama” in un certo numero di altri universi, uno per ogni possibile esito dell’osservazione.». Oggi l’interpretazione a molti mondi non gode di ampio successo, soprattutto per via del suo carattere fin troppo “bizzarro”: com’è possibile che un universo si dirami in più universi? In che modo avverrebbe un fenomeno del genere? Che cosa si intende esattamente per “osservazione” di un sistema quantistico? Se non osservassimo sistemi quantistici, l’universo non si diramerebbe? La coscienza umana ha un ruolo nel moltiplicarsi degli universi? Wiseman, Hall e Deckert hanno sostanzialmente ideato un approccio alla meccanica quantistica simile a quello a molti mondi, ma privo di questi scomodi inconvenienti: hanno chiamato questo approccio “a molti mondi interagenti” (many interacting worlds, o MIV). Secondo questa visione, ci sarebbero altri universi in numero sterminato, ma non infinito e soprattutto costante: in questo modo si elimina il problema della “diramazione”. Ognuno di questi universi è caratterizzato da una fisica squisitamente classica: non c’è distinzione tra il comportamento della materia a livello macroscopico e a livello microscopico; in particolare, non esiste qualcosa come le funzioni d’onda o il principio di indeterminazione, e le probabilità non sono grandezze fisiche fondamentali: conoscendo posizione e velocità di ogni particella, si può stabilire, in linea di principio, l’evoluzione fisica dell’universo in maniera deterministica, come nella meccanica newtoniana. Secondo il modello di Wiseman e colleghi, la presenza dei bizzarri fenomeni “quantistici” è dovuta al fatto che i vari universi non sono perfettamente “paralleli”. Questi infatti interagiscono tra loro: nello specifico, esiste una sorta di “repulsione” che impedisce loro di avere la stessa configurazione (ovvero, la stessa posizione e velocità di ogni particella). L’evoluzione di un sistema quantistico in un universo appare di natura probabilistica per via della nostra ignoranza su quale sia il particolare universo in cui il sistema quantistico evolve. I tre scienziati hanno condotto simulazioni al computer di sistemi quantistici, facendo uso del loro approccio, scoprendo che, in questo modo, si riesce a riprodurre alcuni fenomeni eminentemente quantistici come l’effetto tunnel, l’energia del vuoto e l’interferenza da doppia fenditura. In altre parole, questi eventi potrebbero avvenire in universi completamente “classici”, nell’ipotesi che questi interagiscano con altri universi simili secondo l’approccio MIV. «La bellezza del nostro approccio», dichiara Wiseman, «è che se c’è un solo universo la nostra teoria si riduce alla meccanica newtoniana, mentre se c’è un numero enorme di universi essa riproduce la meccanica quantistica.». L’approccio MIV non è destinato a rimanere soltanto una questione accademica. Come annuncia lo stesso Wiseman, attraverso le sue applicazioni simulative può rivelarsi utile per «modellizzare la dinamica delle molecole, che è importante per comprendere le reazioni chimiche e l’azione dei farmaci.». Bill Poirier, professore di chimica alla Texas Tech University, commenta: «Queste sono grandi idee, non solo a livello concettuale, ma anche per le scoperte a cui quasi certamente daranno origine tramite le simulazioni.». Richard Feynman, uno dei più grandi fisici teorici del Novecento, ebbe a dire: «Nessuno capisce la meccanica quantistica.». Questo perché nessuno riesce davvero a far propri i concetti più anti-intuitivi di questa teoria: si possono usare per fare predizioni matematiche, ma capirli davvero è un altro paio di maniche. Con l’approccio MIV non si è più costretti a capire la meccanica quantistica, perché essa si ridurrebbe a “semplici” proprietà emergenti dall’interazione tra i vari universi. Il prezzo da pagare, naturalmente, è presupporre l’esistenza di un gigantesco numero di universi oltre al nostro.

(7 novembre 2014)

mercoledì 15 luglio 2015

IL K2 E' PIU' BASSO

Gentilissimi,
ecco una notizia interessante. Riguarda la seconda montagna più alta del globo: il mitico K2.
L'articolo, forse non più recentissimo, ma comunque confortante, per lo meno per noi piccolette, è tratto dalla newsletter Le Scienze, solo lievemente modificato, ai fini di una migliore lettura.
Una nonna piccoletta!

scienze della terra
EvK2CNR: Il K2 è alto due metri in meno
Comunicato stampa - I dati della misurazione più precisa mai effettuata
Bergamo, 16 ottobre 2014 - 8609,022 metri: è questa l’altezza del K2. Due metri in meno della quota ufficiale, 8611 metri, riportata sulle carte, su web e nei libri, ed effettuata, nel 1859, dal colonnello Montgomerie, del Survey of India. La nuova misurazione, effettuata nell’ambito della spedizione “K2 60 years later”, supportata da EvK2CNR, coinvolgendo ricercatori e alpinisti pakistani e italiani, è la più precisa mai effettuata. La misurazioni sono state effettuate anche ai campi della via, lungo lo Sperone Abruzzi, dal campo base a campo 4, l’ultimo, situato sulla spalla della montagna. Per rilevare i dati sono stati utilizzati GPS (Global Positioning System) di altissima precisione. Il Gps LEICA Viva GS14, portato lungo la salita fino alla vetta dall’alpinista pakistano Rehmat Ullah Baig, ha registrato dati dalla cima del K2 per più di venti minuti. Il ricevitore ha seguito i satelliti disponibili di GPS e GLONASS e utilizzato i loro segnali per l’ottenimento dell’esatta latitudine, longitudine e altitudine di ogni singolo punto, con 1 Hz di frequenza di campionamento. Altri due GPS, situati a Skardu e al Gilkey Memorial a quote e coordinate geodetiche note, hanno fatto da stazioni di riferimento, permettendo di elaborare i dati del GPS di vetta con precisione al decimetro, ed eliminando eventuali imprecisioni legate a fenomeni atmosferici e ionosferici.  Il progetto di ricerca è stato realizzato da EvK2CNR, sotto la direzione del Professor Giorgio Poretti, in collaborazione con l’Università di Trieste e dei ricercatori della Karakorum International University, della Azad Jammu and Kashmir University e della Poonch University. Di grande interesse anche i dati delle quote dei campi lungo la via dello Sperone Abruzzi, allestiti nelle medesime posizioni, sostanzialmente obbligate, da molti anni. Il campo base avanzato, dove inizia lo Sperone Abruzzi, si trova a 5273 m. 7747 m è la quota di campo 4, l’ultimo, da dove gli alpinisti partono per il tentativo di vetta. Queste le quote dei restanti campi: Campo I  6060 m;  Campo II 6654 m; Campo III 7330 m. Il Campo base è a 4963 m, alla vetta ne mancano 3646. “Già nel 1996, EvK2CNR, in collaborazione con il Survey of Pakistan”, dichiara il professor Poretti, “ha calcolato la quota della montagna, rilevando un’altezza, aggiornata alla quota geoide utilizzata nel 2014, di 8610,34 metri. Oggi però possiamo affermare, con ragionevole certezza, che la misura esatta della montagna degli italiani è 8609,022 metri.”. 
(16 ottobre 2014)


martedì 7 luglio 2015

esperimento di Miller al computer

Gentilissimi,
già in altre occasioni abbiamo parlato delle varie ipotesi sulla origine della vita. Ecco un ulteriore approfondimento sul celeberrimo esperimento di Miller-Oparin.
Grazie all'elaborazione al computer è stato possibile confermare le conclusioni dell'esperimento. L'articolo è stato tratto dalla newsletter Scienzainrete, lievemente modificato per una migliore lettura.

Riprodotti al computer i ‘mattoni della vita’
Come è avvenuto il passaggio dall’inorganico all’organico? Come, in sostanza, ha avuto origine la vita? Un importante passo in avanti, nelle nostre conoscenze, è stato compiuto grazie a due fisici di Messina, Franz Saija, ricercatore dell’Istituto per i processi chimico-fisici, del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina (Ipcf-Cnr), e Antonino Marco Saitta, professore di Fisica all’Università Pierre e Marie Curie, che, per la prima volta, hanno riprodotto al computer il celebre esperimento di Stanley Miller, con il quale, nel 1953, si dimostrò, in laboratorio, la possibilità di formare spontaneamente gli aminoacidi, le molecole base della vita, sottoponendo a intense scariche elettriche le semplici molecole inorganiche presenti nel brodo primordiale, così come ipotizzato, già nel 1871, da Charles Darwin. Trattando le interazioni dei singoli atomi a livello quantistico, i due ricercatori sono riusciti ad individuare i meccanismi coinvolti in queste reazioni chimiche su scala atomica e a determinare le condizioni necessarie per la sintesi degli aminoacidi. “Abbiamo simulato al computer il comportamento di una miscela di molecole semplici (acqua, ammoniaca, metano, monossido di carbonio, azoto), sottoponendola a intensi campi elettrici”, spiega Saija. “L’effetto di tali scariche elettriche, dell’ordine dei 50 MV/cm, ha determinato la trasformazione delle molecole del sistema iniziale in altre via via più complesse, fino alla comparsa della glicina, l’aminoacido più semplice in natura, considerato il ‘mattone fondamentale’ per costruire peptidi e proteine.”. Tali intense scariche elettriche simulano l’azione dei fulmini, presenti nell’ambiente terrestre primordiale. Gli autori di questo lavoro, pubblicato, questa settimana, sulla rivista dell’Accademia delle scienze americana ‘Pnas’, hanno dimostrato, mediante tecniche avanzate di simulazione numerica, che queste reazioni avvengono attraverso stadi di reazione più complessi di quanto supposto in precedenza, individuando il campo elettrico come sorgente di energia fondamentale nell’innescare la formazione degli amminoacidi e identificando gli acidi formico e cianidrico e la formammide come prodotti intermedi ‘chiave’ per la sintesi degli aminoacidi e, quindi, dei precursori del dna e degli acidi metabolici. “La portata di questo studio si spinge al di là degli esperimenti di Miller”, prosegue il ricercatore dell’Ipcf-Cnr, “poiché campi elettrici estremamente intensi, anche se molto localizzati, sono presenti, in natura, sulla superficie dei minerali che si trovano nelle profondità della Terra. Questo risultato pionieristico suggerisce dunque la necessità di esplorare a fondo il ruolo di tali campi: sia per comprendere i meccanismi chimici che hanno portato allo sviluppo di molecole biologiche sempre più complesse, sia per sfruttare le enormi opportunità che questo tipo di simulazioni numeriche quantistiche possono aprire in molti ambiti scientifici, dall’elettrochimica alla neurobiochimica.”. “L’attività da cui nasce questo articolo si inquadra nello studio dei sistemi macromolecolari, polimeri e fluidi complessi, condotto tramite metodi di simulazione numerica all’Istituto per i processi chimico-fisici afferente al Dipartimento Scienze chimiche e tecnologie della materia del Cnr”, sottolinea il direttore, Cirino Salvatore Vasi. “Da questa ricerca è stato possibile chiarire alcuni meccanismi fondamentali alla base delle reazioni chimiche prebiotiche, che aprono nuove frontiere per lo studio dell’origine della vita e per applicazioni nell’ambito delle biotecnologie.”.
Ufficio Stampa CNR

(9 settembre 2014)

sabato 4 luglio 2015

coleottero bianco

Gentilissimi,
dopo mesi di assenza, per motivi di salute, la vostra nonna ritorna più in forma che prima. Almeno speriamo che la salute non mi manchi, come ogni tanto accade.
Per evitare, ancora, malori dovuti al caldo, mi sono attrezzata con un ottimo ventilatore, con granite alla melissa, acqua a volontà e abiti bianchi. In proposito Vi lascio un interessante articolo, tratto e lievemente modificato, dalla newsletter SCIENZAINRETE.
Vi si trovano articoli scientifici e notizie curiose. Penso sia possibile ancora il download di un libro sul metodo Stamina, metodo NON scientifico, di cui, mi pare, abbiamo già avuto modo di parlare.


Il bianco più bianco? È di un coleottero
Scoperte le ragioni fisiche del bianco, incredibilmente intenso e brillante, delle scaglie di rivestimento di alcune specie di coleotteri. Il Cyphochilus, un parente asiatico del comune ‘maggiolino’, ha infatti una proprietà che non passa inosservata: il corpo è rivestito da uno strato di microscopiche scaglie di un bianco estremamente intenso, al pari di un foglio di carta o di uno strato di vernice, che presentano uno spessore oltre dieci volte maggiore. Questa particolare proprietà è stata oggetto di studio da parte di un gruppo di ricercatori dell’Istituto nazionale di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ino-Cnr), del Laboratorio europeo di spettroscopia non lineare Lens, dell’Università degli studi di Firenze, e dell’Università di Cambridge, che sono riusciti a spiegare le strategie adottate per ottenere questo sorprendente risultato, delineando le prospettive per una nuova generazione di materiali e vernici più efficienti e a minor impatto ambientale. I risultati sono stati pubblicati su 'Scientific Reports'. “Il coleottero deve risolvere un duplice problema: da un lato essere leggero, per poter volare, e dall’altro apparire di un colore bianco brillante, per mimetizzarsi tra i funghi in cui vive”, spiega Matteo Burresi, ricercatore Ino-Cnr, responsabile del gruppo di ricerca. “Questo è possibile grazie alla struttura interna di queste scaglie, che è stata opportunamente ottimizzata da milioni di anni di evoluzione. Tale struttura è composta da una rete disordinata di filamenti, il cui diametro è di poche centinaia di nanometri, ovvero quasi mille volte più sottili di un capello.”. “Il risultato è ancora più sorprendente”, aggiunge Silvia Vignolini, ricercatore dell’Università di Cambridge, “se si pensa che questi coleotteri riescono a ottenere questo grado di bianchezza con un materiale, la chitina, che, in genere, non è in grado di influenzare sensibilmente la propagazione della luce. Con le attuali tecnologie non siamo in grado di produrre un materiale altrettanto bianco in uno spessore così ridotto.”. “I risultati di questa ricerca”, conclude Diederik Wiersma, professore ordinario di fisica della materia presso l'Università di Firenze, “da una parte suggeriscono interessanti strategie con cui progettare nuovi materiali per diffondere più efficacemente la luce, dall’altra dimostrano che non è necessario impiegare materiali che interagiscono fortemente con essa, come quelli attualmente impiegati, ad esempio, nell’industria delle vernici, per ottenere rivestimenti altamente coprenti.”.
Ufficio Stampa CNR
(3 settembre 2014)